Recensione: The Judas Paradox

Di Daniele D'Adamo - 6 Settembre 2024 - 0:00
The Judas Paradox
Genere: Death 
Anno: 2024
Nazione:
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78

The Judas Paradox” è il dodicesimo album dei God Dethroned. Un bel traguardo, sottolineato da un tema interessante e originale: considerare Giuda quale capro espiatorio di un disegno volto a creare un Re per questo Mondo.

Onore ai Nostri, quindi, per aver avuto il coraggio di sondare l’insondabile. Ma non solo per questo. Soprattutto per la musica. Nel loro percorso evolutivo, i God Dethroned, a mano a mano che passavano gli anni, hanno rivolto l’attenzione a un tipo di death metal articolato, vario, non necessariamente spaccaossa e basta.

Un viaggio durante il quale si sono verificati parecchi approfondimenti. Detto del testo, il loro stile ha subito parecchie modifiche che, come detto, da un assalto feroce alla carotide si è trasformato in una proposta multiforme, caleidoscopica, dotata addirittura di stupende orchestrazioni (“Black Heart“), volta a tratteggiare il death metal nel disegno di un’opera accessibile praticamente a tutti gli amanti del metallo oltranzista ma non solo.

Sì, perché, diminuita la velocità, comunque presente nei numerosi segmenti in cui imperano i blast-beats (“Rat Kingdom“), il mastermind Henri “T.S.K.” Sattler (voce, chitarra) ha potuto dar luogo a un sound massiccio, potente, in cui è rilevante la componente melodica. Detto in tal modo, sembrerebbe una castroneria. Così non è. Accompagnati dalla voce del ridetto Sattler, sempre e comunque arsa, dall’ugola sanguinolenta, folle come da tempo immemore, l’apparato musicale ha subito un rimaneggiamento quasi totale.

Certo i God Dethroned sono sempre i God Dethroned, tuttavia la fase compositiva è stata modificata, subendo un congruo ampliamento e ispessimento; donando alla band olandese un’ampia possibilità di azione. Così facendo, è salita l’asticella dell’orecchiabilità, da intendersi non come catchy e nemmeno come quella del melodic death metal, che nulla c’entra con l’oggetto trattato. No, Sattler e compagni – nel frattempo, da “Illuminati” (2020), è cambiato il batterista, ora Frank Schilperoort – compiono l’encomiabile sforzo di donare al sound una musicalità a tutto tondo, facilmente individuabile fra le altre migliaia di proposte analoghe.

Forse sarà proprio il nuovo drummer che, magari si è portato dietro il proprio bagaglio tecnico/artistico per aiutare Sattler in quest’operazione sicuramente complessa. Passare da una sorta di death metal classico, brutale, assassino, a una forma meno spietata ma molto più articolata non è facile per nessuno, tuttavia i God Dethroned, con il loro innegable talento, si può dire che siano riusciti in quest’ardimentosa opera.

I brani sono coerenti con il nuovo stile della formazione arancione, e questo era forse scontato, ma ora si mostrano con una veste dissomiglianti l’una dall’altra. Esse scorrono sciolte, libere da vincoli nel trattare un argomento invece di un altro, con una componente armonica che le diversificano per un ascolto globale, che tocca tutti i punti del nero metallo. Una ascolto assolutamente piacevole e longevo, poiché i particolari da mandare a memoria sono davvero tanti. C’è anche l’hit, per modo di dire, che coincide con “Hailing Death“, brano duro e massiccio, velocizzato dai blast-beats ma dotato di un chorus davvero coinvolgente, avvolgente come non mai.

E come “Hailing Death“, tutte le tracce hanno qualcosa da regalare, in termini di arte e tecnica, sì da restare anch’esse ben piantati nel cervello per rimanervi a lungo. Mica male!

I God Dethroned hanno saputo reinventarsi da un suono ormai vetusto nonché trito e ritrito. E lo hanno fatto bene. Con equilibrio, sicurezza nei propri mezzi, una buona dose di carattere e di personalità.

Bravi!

Daniele “dani66″ D’Adamo”

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