Recensione: The Key
Iniziamo con alcune ovvie questioni; la prima che salta in mente è un perché grosso come un garage delle macchinine del figlio di un emiro: perché Geoff Tate usa come moniker Operation Mindcrime su un disco che non c’entra un’emerita *parolaccia random* con uno dei più begli album di tutti i tempi? Marketing puro e semplice, necessario diremmo, dopo quell’inenarrabile ciofeca di nome Frequency Unknown che anche le sedie rifiutarono come feltrino. Il disco in questione si chiama The Key, anche se l’artwork suggerisce più un titolo come Denim After Shave o uno slogan per la campagna abbonamenti della Fiorentina. La farsa, della quale conoscerete di certo tutti i dettagli, continua ancora con la seconda doppia uscita targata Queensryche o chi ne fa veci e feci. Nel momento in cui esce Tate escono anche i Ryche a distanza di pochi giorni o viceversa, e il tutto suona un po’, diciamolo, come una presa per i fondelli. Il derby per adesso è stabile sull’1 a 0 per i Ryche e zero tiri in porta per Geoff Tate, il secondo tempo sta per iniziare e noi ci cimentiamo in un’altra telecronaca.
La line up di The Key offre molti grandi musicisti: si va da Ellefson a Gray e tante altre comparse più o meno di lusso. Ciò che permea tutta l’opera è un songwriting che mai decolla, lo si trova quasi artefatto, poco sincero e suonato da freddi turnisti. Parliamo di un concept in tre parti su economia, politica e altre amenità, cosa quasi scontata se ti avvali di un certo nome.
Choices è sostanzialmente un’intro che risulta davvero brutta e con un coro lagnoso e moscio all’inverosimile; Burn è la prima vera e propria canzone e non è malvagia, tranne la strofa poco ispirata e, come detto, il problema degli arrangiamenti che si protrarrà per tutto il disco. Re-Inventing The Future offre un gran bel riff in apertura, classico ma riuscito, e il brano si assesta su livelli discreti ma non memorabili, complici chitarre scopiazzate qua e la dal passato dei Queensryche e con zero fantasia. Ready To Fly offre in apertura un buon fraseggio, seguito da un mood abbastanza azzeccato e oscuro ma deturpato dal pessimo ritornello; molto buono invece il ponte col solo di tastiera che arriva a dare la giusta carica e il giusto respiro alla traccia. Discussions In A Smoke Filled Room è un breve intermezzo a base di voci effettate e tastiere che, più che discussioni in una stanza piena di fumo, rimandano a qualcosa di più sinistro e catastroficamente imminente. Cosa che avviene davvero con il pessimo attacco di Life Or Death, che però si raddrizza subito rivelandosi un pezzo piuttosto riuscito, orecchiabile e di facile presa. Brivido, terrore e raccapriccio vengono portati dalla seguente The Stranger, che si rivela una vera e propria debacle artistica accompagnata da uno pseudo rock marziale e vagamente crossover con tanto di strofa rappata e una produzione che è potente quanto la carica spermatica di un eunuco. Il ritornello poi risulta totalmente inascoltabile e pressoché inesistente; brano davvero pessimo e il peggiore del disco con ampio margine. Hearing Voices alza un po’ il tiro dell’opera rivelandosi uno tra i suoi migliori pezzi, almeno in apparenza: finalmente del buon heavy metal suonato e cantato come deve essere. Il tutto viene però puntualmente rovinato dal ritornello; era veramente difficile tirarne fuori uno peggiore. On Queue, prima di iniziare, fa balzare sull’orologio lo sguardo dell’ascoltatore che risulta già terribilmente annoiato; in seguito si presenta come un lentaccio acustico che è anche ben suonato, ma cantato pessimamente e senza un briciolo di idee. Spunta poi dal nulla un sax, che ormai è talmente inflazionato da trovarsi nei dischi dei Cattle Decapitation, in quelli degli Esoteric e anche nelle ristampe dei Mayhem. An Ambush For Sadness è il secondo e ultimo intermezzo dell’album, nella quale non si fa un’imboscata alla tristezza ma è la tristezza stessa ad imboscare l’ascoltatore in quell’angolino dove si veniva messi in castigo per ore se necessario e senza un perché. Kicking In The Door, penultimo pezzo del lotto, è una semi-ballad che non è né arte né parte e ancora una volta non fa altro che confermare tutto ciò che finora abbiamo detto. Chiude il tutto la lunghissima The Fall, che ormai si ascolta coi padiglioni auricolari e stremati in tutto e per tutto; qualche spunto c’è, ma onestamente nulla da segnalare.
In tutto ciò, la voce del buon Geoff com’è? Non è di certo stato uno dei migliori cantanti in circolazione per niente, e lo sarebbe ancora se avesse dietro un songwriting degno di essere chiamato tale. I momenti davvero buoni che escono dalla sua ugola sono pochi, pochissimi, ormai non ci crede più nemmeno lui e si sente; nonostante tutto non si cimenta in acuti simil pollo col collo stretto in una morsa e non tenta in ogni modo di strafare, anzi, tenta in ogni modo di non fare per niente! Le linee vocali del disco offrono pochissimi momenti d’ispirazione e fanno parte di quel tentativo di ricercato che nella maggior parte dei casi si rivela pura fuffa.
The Key quindi è sicuramente migliore dell’abominio precedente ma non rientra nei canoni di sufficienza che oggi ci possiamo e dobbiamo aspettare come minimo sindacale da certi nomi. Le canzoni non decollano mai tranne qualche sporadico momento e il disco non lascia praticamente nulla nemmeno dopo parecchi ascolti. Quello che si sente in maniera prepotente, è come a Geoff manchi una band con la B maiuscola. Persone con cui amalgamarsi, condividere, scrivere e ricercare; questo disco è stato eseguito, non suonato né tantomeno sentito. Possiamo quindi fermarci qui e dire che, con massima ironia, The Key si conclude con una persona che scava una tomba; se gli altri due dischi del concept saranno su questi livelli, la buca verrà presto abitata.