Recensione: The Last Horizon
A due anni esatti di distanza da “Flames Of Eternity“, gli Imperia (olandesi di nascita ma oramai multietnici, avendo radici anche in Germania, Finlandia, Norvegia e Belgio) tornano sul mercato forti del contratto di ferro con Massacre Records, che ha nel roster la band sin dal 2007, anno del secondo platter “Queen Of Light” (il debut “The Ancient Dance Of Qetesh” era uscito per Ebony Tears). Dalla formazione originale non sembra poi essere cambiato granché, visto che ben tre membri sono sopravvissuti, in primis naturalmente la carismatica leader Helena Iren Michaelsen, centro nevralgico del sound “imperiale”. “The Last Horizon” si presenta come un lavoro che alza l’asticella delle ambizioni della band, trattandosi di un doppio album; vista la durata, 68 minuti, la scelta di sdoppiare i cd pare più scenografica che altro, dato che non si tratta di un minutaggio particolarmente monumentale, importante ma non “monstre“. Né si può dire che il materiale contenuto nel songbook dei nostri sia così enciclopedico, vario e diversificato da giustificare magari una partizione in due differenti capitoli. Non ho ben compreso il motivo di una pubblicazione doppia, ma tant’è, questo è quanto offre “The Last Horizon”.
Coerentemente con “Flames Of Eternity” il discorso è rigorosamente sinfonico e magniloquente; semmai rispetto al disco precedente gli Imperia hanno effettivamente cercato di ampliare i confini e comprendere influenze più ricche e articolate. Oltre al symphonic ed al power, c’è del folk (“Dancing“), una puntina di viking (“To Valhalla I Ride“), un po’ di gothic (“Where Are You Now“), epos (“Blindfolded“) e ballate (“While I Am Still Here“), ma in fin dei conti, a ben guardare tutto è sempre e comunque riconducibile ai confini del symphonic metal, pur venato di nuance che insaporiscono qua e là. La Michaelsen profonde (un po’ col contagocce per la verità) le sue performance vocali, trasformandosi in soprano all’occorrenza (un esempio per tutti “I Still Remember“), ma è proprio la Michaelsen a mancare per prima in questo album, e per la verità in tutto il corso più recente della band. Non fraintendete, la sua voce è importante, potente e cristallina, ma se si riascoltano i dischi della prima decade dei 2000 si noterà immediatamente come la singer recitava mille parti in commedia lungo i pezzi in scaletta, promuovendo un registro di stili e personalità davvero esorbitanti. Progressivamente, tanto il sound degli Imperia quanto il cantato della frontwoman si sono un po’ normalizzati, standardizzati, attestandosi su livelli sempre elegantissimi e raffinati ma decisamente meno sorprendenti.
Tutto sommato, considerate tutte le dovute differenze e sfumature, “The Last Horizon” non cambia radicalmente le carte in tavola rispetto a “Flames Of Eternity“, pur risultando nel complesso un lavoro superiore. Contiene ottimi brani come (a mio giudizio) “Starlight“, “Blindfolded“, “Only A Dream“, “Dancing“, tuttavia pecca dello stesso peccato – se tale lo si può ritenere – di tutta la recente produzione di casa Imperia, l’impossibilità di replicare i fasti giovanili, quando la band si affacciò al pubblico proponendo davvero qualcosa di grandioso, nuovo ed esaltante. Oggi gli Imperia rientrano senza troppi sussulti nel gran calderone delle symphonic metal band a guida femminile, all’interno del quale preferire questi o quelli è solo una questione di gusti e simpatie personali, visto che stilisticamente non c’è un abisso a separare i vari attori. Tra le tante, “My Other Half” forse fa un po’ eccezione poiché più che una canzone è una specie di parentesi strappata ad un musical. Un incedere in crescendo e cinematografico ospita la performance lirica della Michaelsen, più ispirata che altrove, ma si tratta di una parantesi che poi cede il passo ad una symphonic metal song decisamente “tipica” come “One Day“.
Ripeto, non siamo affatto al cospetto di un brutto album e nemmeno di uno mediocre, gli Imperia sono una band oramai di esperienza, in grado di elargire preziosismi e finezze, e di mettere a segno qualche buon colpo, tuttavia manca l’accelerata finale, quel quid che faccia fare a questo album (come a quelli immediatamente precedenti) quel salto di qualità tale da imprimere definitivamente il nome del gruppo nella mente e nel cuore dell’ascoltatore. Si rimane in un limbo, cesellato con gran gusto, ma sempre privo di un ponte luminoso che ci conduca fuori dallo standard e ci elevi all’empireo (a dispetto della evocativa copertina assegnata a questo album). Certamente un ascolto piacevole che potrà soddisfare i palati meno esigenti in ambito symphonic, ma per chi ha conosciuto gli Imperia a partire da “Qetesh“, 17 anni e 5 album dopo quel fragoroso debut era lecito aspettarsi una band in posizione assai più avanzata e prominente, al vertice di un genere che conta anche tante belle statuine e copie carbone.
Marco Tripodi