Recensione: The Last Viking
Hélène Ahrweiler nella sua relazione, tenutasi in occasione del convegno di Châteauvallon nell’ottobre del 1985, prima di entrare nel pieno della trattazione specifica (avrebbe parlato del tempo bizantino nel mondo mediterraneo), pose all’attenzione di tutti i presenti una semplicissima, ma assolutamente vera, riflessione del gigante della Storia Fernand Braudel, che si colloca alla base di ogni studio storico: “…in campo storico qualsiasi verità vale solo nelle grandi linee…”. Nella piena consapevolezza di questo “comandamento” bisogna collocare, dal punto di vista storico, parte della tematica trattata dai Leaves’ Eyes nel loro ultimo album The Last Viking. A questo importante postulato si aggiunga la teoria di Maurice Aymard, altro colosso della Storia, secondo il quale l’Europa in cui viviamo “sia stata costruita dal Mediterraneo” (concetto ribadito in occasione del convegno già citato) per poter affermare che, probabilmente, i Leaves’ Eyes abbiano eccessivamente mitizzato, a tal punto da dedicargli un brano lungo 10 minuti (The Last Viking), il personaggio di Harald Hardråde, che in fondo non fu capace di conquistare il suo paese per poterlo governare; quindi l’opera di celebrazione, come anticipato, vale solo nelle grandi dinamiche della Storia, nella musica gli utilizzi poi subiscono variazioni, rivisitazioni, rimaneggiamenti tesi a far emergere soltanto quello che maggiormente si desidera.
Questa parentesi è stata doverosa perché nel genere Metal dei Leaves’ Eyes la Storia ha un peso specifico importante e qualche riferimento storico, avulso dal contesto musicale teso a mitizzare, è importante per poter dare un giudizio oggettivo e globale all’opera, in questo caso a The Last Viking.
L’ultimo lavoro dei Leaves’ Eyes, apprezzabile più nel significante che nel significato, sontuoso più nella forma che nei contenuti, si rende subito obsoleto e si consegna, nel giro di pochissimo tempo, dal ruolo di guerriero metaforico a un triste pezzo da museo, perché, come accade sovente in questo genere, di nuovo e fresco non c’è nulla. I brani sembrano essere ispirati da sé stessi e si ha sempre la percezione, probabilmente per l’abuso di stilemi specifici che svalutano ogni forma di identità, di ascoltare il medesimo pezzo.
L’eccessiva ridondanza dei tratti caratteristici del genere musicale e delle specificità della voce fanno apparire i brani poco ispirati, infatti si ha la percezione che la band tenuta in piedi da Alexander Krull sia più attenta a confezionare un prodotto a tavolino per aderire a un canone, piuttosto che a ingegnarsi per produrre qualcosa di particolare. In tutto l’album si ha la sensazione che molti passaggi siano forzati per aderire necessariamente a un modello e purtroppo questo è il limite di questo genere che nel tempo, dopo essere stato abusato e aver prodotto risultati eccellenti, non è stato in grado di rinnovarsi.
Questo è un peccato perché i Leaves’ Eyes, seppur con un’altra formazione, avevano dato prova, con Lovelorn (2004) di saper frequentare dignitosamente gli ambienti Gothic.
La band, che speriamo non sia in disarmo, ha confezionato un prodotto assolutamente quadrato, privo di sorprese in grado di catturare l’attenzione dell’ascoltatore e che ogni tanto si dimentica che si sta operando nell’ambito del Metal. Uno degli elementi caratteristici è rappresentato dalla voce growl di Krull che a tratti sembra fastidiosa e pesante, anche perché sovente compare priva di logica e di questo ne risente l’unione della composizione.
The Last Viking non brilla di certo per originalità, non sarà ricordato come un album che innesca una grande, improvvisa e deflagrante rivoluzione musicale, non rappresenta lo stato dell’arte del genere fissando vette impervie e stellari, si limita a soddisfare gli amanti convinti di questo genere, ma si circoscrive soltanto a questo.
Se si cerca qualcosa di originale e pensato bisogna ascoltare altro; qui si passerà dalle influenze celtiche, come in Two Kings On Realm o in Flames In The Sky, ad ambienti più propriamente folk, come in Serkland (rivisitazione), ma senza avere la sensazione di aver soddisfatto la propria sete di novità musicale.
In realtà il brano di apertura, Death Of A King, rappresenta un inizio epico ben fatto e che lascia presagire sviluppi interessanti, ma così non sarà e si assisterà a uno spettacolo già ripetutamente visto, in questo caso sentito.
Tutto questo innesca un senso di delusione tangibile, perché nell’album compaiono alcune buone idee, sia compositive che intellettuali, come nel caso di Chain Of The Golden Horn (anche se poco originale).
Dal punto di vista concettuale sono interessanti i recuperi di alcuni eventi storici affascinanti e caratteristici: nel brano appena citato si parlerà della fuga di Hardråde da Bisanzio dove una pesante catena era nascosta nelle acque del Bosforo per far naufragare le navi nemiche; in Dark Love Empress, uno dei pochi brani in cui la voce di Elina Siirala si emancipa dai suoi standard classici dando una prova convincente, la protagonista sarà l’imperatrice Zoe che farà rinchiudere in cella l’eroe vichingo perché si rifiutò di divenire suo amante; nella veloce Serpents And Dragons l’avvincente duetto tra Elina Siirala e Alexander Krull si ergerà a metafora del combattimento navale in cui fu impegnato Hardråde per la corona danese.
Il disco appare affascinante per le atmosfere uniche che sono state evocate e queste vengono enfatizzate dall’utilizzo di strumenti di origine medievale che destano curiosità, anche se probabilmente in Germania gli In Extremo in questo non hanno rivali. Peccato che questa caratteristica, unita al tema portante dell’intero album (rappresentato dagli ultimi attimi di vita di Hardråde che morente in battaglia vede scorrere davanti ai suoi occhi tutta la sua mirabolante vita), non abbiano trovato coronamento e piena realizzazione con una costruzione musicale all’altezza delle intenzioni. Rimane un mistero, per esempio, War Of Kings e come sia stata ulteriormente danneggiata da un assolo di chitarra alquanto improbabile, che non gira nell’economia del brano.
Da un ascolto attento del disco, emerge quanto segue.
L’intro del platter è semplicemente quella che ci si aspetterebbe alla sola vista della copertina. Death Of A King parte con delle percussioni che da subito proiettano, come già scritto, in scenari nordici pieni di gloriose battaglie. Qui troviamo strumenti tipici, voci e lamenti fuoricampo, gli archi intenti a scandire note staccate e il tutto è condito da una definizione nel suono davvero niente male.
Chain Of The Golden Horn parte spedita, rispettando pienamente i canoni del genere. Breaks di batteria e riffs sui cantini per Thorsten Bauer alle chitarre. Il tutto è contornato da cori epici, ma purtroppo davvero poco originali. Il timbro di voce di Elina Siirala si dimostra da subito un mix perfetto tra una Tarja Turunen (soprattutto se prendessimo come esempio Oceanborn dei Nightwish) e Simone Simons degli Epica. Questo purtroppo non basta: forse non si riesce più a conteggiare il numero delle band che nel mondo si affidano a questa caratteristica per poter emergere e farsi notare nel panorama Metal. Qui, per rispettare ancora gli stilemi del Symphonic Metal, abbiamo la voce oscura e cavernosa di Alexander Krull a bilanciare la leggiadria della suddetta Elina Siirala. Come da manuale il chorus è rappresentato dall’intro in struttura e strumentalmente siamo davanti a poche idee (ma comunque buone) suonate con passione e dedizione; bridge solo voci (e tom) dopo l’assolo di chitarra e non manca certo la modulazione finale a salire di un tono per rendere il tutto più epico e avvincente.
Segue Dark Love Empress, simil ballad nella strofa e più pomposa nel chorus. L’intro di piano è un must e i Leaves’ Eyes di questo ne sono consci. Questa song è molto godibile e orecchiabile, ma siamo a livello della sufficienza se parliamo di valore compositivo. Oltre alla voce (intesa come figura perennemente presente, non come valore artistico o tecnico) di Elina Siirala non c’è null’altro che emerge e, sinceramente, nemmeno le lead di Thorsten Bauer sono degne di nota.
In rapida successione si ascolta Black Butterfly, che vede la partecipazione di Clémentine Delauney (Visions of Atlantis) alla voce. Il duetto non è particolarmente riuscito se pensiamo a quella che dovrebbe essere un’ipotetica e giusta “compensazione di frequenze e timbri”, ma il mondo del Metal oggi conosce purtroppo fin troppo bene il sistema delle collaborazioni a sfondo “Click”. Al minuto 4:20 ci sono reminiscenze di Lady Of Babylon dei Death SS (da Panic del 2000), poi break e solita modulazione.
Serpents And Dragons non aggiunge nulla di nuovo: intro corale e drumming un po’ più arrabbiato del solito, riffing di chitarra poco presente (e poco originale) e si parte verso sonorità trite e ritrite a tratti terribilmente banali. Si sogna a tratti un guizzo, sempre parlando di riff, in stile The Second Stone (da The Quantum Enigma degli Epica) che però non ci sarà mai per tutto il lavoro.
War Of Kings contiene una delle intro forse più inascoltabili degli ultimi anni. Voci indefinite (in termini proprio di definizione sonora) fanno strada a una strofa sottotono e col solito mid tempo a marcare il territorio. Il chorus è sotto forma di domande e risposte tra il suddetto (improbabile) coro e Elina Siirala. A lei l’arduo compito di portare avanti le sorti dell’intero The Last Viking.
Non fa eccezione For Victory, finalmente c’è qualche contrasto in più di chitarra ma è tutto davvero molto pacchiano. Tutte le musiche scritte da Thorsten Bauer e Alexander Krull sono forse coerenti, come anticipato, con l’idea di base di un progetto come questo, ma siamo lontani anni luce da composizioni avvincenti, fresche e che possano durare nel tempo. I suoni, seppur grossi e definiti, risultano sempre freddi e limitati alla propria parte strumentale. Non si trova mai un drumming che possa creare un accento particolare durante una qualsiasi altra parte solista. Eppure l’entusiasmo e la voglia di fare le cose per bene si percepiscono da subito. Unica nota di merito è rappresentata dalla partecipazione di Thomas Roth, talentuoso musicista di nyckelharpa (strumento svedese a metà strada tra un violino e una ghironda, definito da molti il “violino dei tasti”).
Riguardo a Two Kings One Realm l’intro riprende le atmosfere di Death Of A King ma con una voce quasi narrata, per certi versi molto suggestiva e forse originale, che fa da prologo a Flames In The Sky, comunque il verse è canonico e il chorus poco brillante. Le percussioni (o i tamburi come vengono più volte definiti nelle note d’accompagnamento) sono onnipresenti in questa track e la voce di Alexander Krull a tratti ricorda il famigerato Felix Stass (ascoltare Act Seven dei Crematory per un confronto) per timbro ed enfasi.
Un aspetto è chiaro e lapalissiano: le parti epic-style alle sei corde sono purtroppo la nota dolente di questo The Last Viking; queste si presentano sottotono e banali in tutte le loro sfaccettature: nelle ritmiche, nei temi, negli assoli affondano la parte finale del disco anche nelle seguenti Serkland, Varangians e Night Of The Ravens. In tutto questo la produzione cristallina rappresenta un elemento positivo. Le speranze, infine, sono tutte riposte nella title trak.
L’apertura è ai tamburi e un riff acido accompagnato allo scandire di campane. Tutto sommato The Last Viking è un bel sentire, più violento e oscuro del solito. Questa intro risulterà essere poi il vero bridge del brano stesso, la doppia cassa di Joris Nijenhuis è sempre puntuale, ma poco dinamica (siamo in campo Symphonic Metal, è vero…). Lo strumentale restituisce vigore nella parte centrale del brano, ma dobbiamo attendere 10:04 minuti per ascoltare il vero finale del disco. Break Into The Sky Of Aeon è la conferma di quanto detto: un lavoro pressoché dignitoso ma che per poter far parlare di sé (musicalmente parlando) avrebbe meritato forse un pizzico di ricerca in più.
Alda Merini scriveva che “Ogni alba ha i suoi dubbi” e ogni ascolto di The Last Viking, un po’ come le albe di meriniana memoria, fa sorgere sempre qualche dubbio sulla sua reale consistenza, sul suo valore e sul perché siano state operate alcune scelte che non depongono a favore di un album che rimarrà impresso nella mente; un disco, in definitiva, da ascoltare se non si hanno troppe pretese.