Recensione: The Last Will And Testament

Di Paolo Fagioli D'Antona - 21 Novembre 2024 - 10:27
The Last Will And Testament
Band: Opeth
Genere: Progressive 
Anno: 2024
Nazione:
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85

Attenzione! Quella che segue è una recensione dettagliata del concept degli Opeth, ci sono spoiler.

 

The Last Will And Testament è un disco che verrà ricordato nella storia del ricco catalogo degli Opeth per tanti motivi: innanzitutto è un ritorno, dopo venticinque anni (ossia dai tempi di Still Life), ad un concept album vero e proprio, con una storia che viene narrata in maniera continuativa dalla prima all’ultima traccia. Difatti, se è vero che Ghost Reveries era anch’esso sorta di concept che ruotava attorno a temi come la possessione demoniaca e l’essere tormentati dai fantasmi del proprio passato, non tutte le tracce erano legate a questi stessi temi e ogni traccia raccontava una storia a sé stante senza continuità narrativa. La seconda importante novità è il ritorno di Åkerfeldt al growl dai tempi dell’ormai lontano Watershed del 2008, ma non solo, ritornano in questo disco anche i riff di chitarra più vicini al metal per un connubio di sonorità che mischia sapientemente i già citati Ghost Reveries e Watershed con i dischi più di stampo progressive rock del nuovo corso, come Heritage e In Cauda Venanum. “Last but not least”, come direbbero gli anglofoni, The Last Will And Testament, vede per la prima volta alla batteria Waltteri Vayrynen, drummer dal talento straordinario la cui performance rappresenterà la ciliegina sulla torta di un disco di altissimo livello in tutto e per tutto. Ma prima di partire con la parte musicale è bene mettere in chiaro la storia di questo intricato concept. Già, perché l’aurea di mistero, di oscurità e di dramma che avvolge la musica di questo album che per certi versi, riporta a quel mood sinistro tanto caro a Ghost Reveries, si lega perfettamente alla trama di questa insolita, originale ma affascinante storia.

Siamo negli anni che seguono la prima guerra mondiale, dove un ricco patriarca è appena morto lasciando il suo testamento alla famiglia. L’album non è altro che la lettura di questo testamento che si divide in sette paragrafi che rappresentano i primi sette brani dell’album, con l’ultimo pezzo che rappresenta una specie di nota a sé stante che poi spiegheremo in maggior dettaglio nel proseguito della trama. Le vicissitudini della vita di questo patriarca, delle dei suoi crimini, ma anche dei suoi sensi di colpa, ma soprattutto, dell’impatto del suo testamento sugli eredi del suo ricco patrimonio, vengono svelati da un’incredibile Mikael Åkerfeldt che si cala nel ruolo in maniera perfetta, per una delle sue performance più teatrali e pregne di pathos di sempre, condite dalle parti in “spoken word”, quindi narrate, niente popò di meno che da Ian Anderson dei Jethro Tull (che offrirà anche delle sezioni con il suo classico flauto traverso durante il corso del disco).

Vi dovete immaginare quindi, di essere catapultati in un’ epoca lontana e di stare in una stanza dove giace il corpo senza vita di un uomo (il patriarca), avvolto in una lapide, mentre viene letto il suo testamento in presenza della famiglia, in particolare di due gemelli (quelli che dovrebbero rappresentare i destinatari del patrimonio in quanto figli diretti del padre deceduto) e di una ragazzina affetta dalla poliomielite, che è stata presa in cura dalla famiglia ma a quanto sembra non risulta essere una diretta erede. Durante la lettura del testamento, si scoprono delle verità che stravolgeranno la vita di queste persone;  difatti si scopre che i gemelli non sono figli del padre, ma bensì di una persona facente parte della servitù, che ha dovuto mettere incinta la moglie del patriarca sotto ordine del patriarca stesso, per camuffare la propria infertilità, che di quei tempi avrebbe portato tanta vergogna ad una famiglia tanto altolocata. Il servo è stato poi ucciso per non lasciare sospetti e la famiglia ha mantenuto questo terribile segreto nascosto. Non solo questo, ma si scopre che la ragazzina con la poliomielite è la reale figlia del patriarca che ha avuto una storia con una domestica della casa che con il grande stupore dell’uomo (pensando egli stesso di non essere in grado di poter far concepire), è rimasta incinta . Con questo si conclude il testamento vero e proprio ossia le parole e la storia raccontata dal padre. Ma è con il finale che risulta essere anche l’unico brano con un vero e proprio titolo, ossia A Story Never Told, in cui la realtà viene a galla, proprio grazie alla voce della domestica che attraverso una lettera racconta come la ragazzina con la poliomielite non sia in realtà la figlia del patriarca, ma di qualcun altro. Lei stessa ha voluto mentire all’uomo per garantire la protezione di sua figlia dicendole che era sua. In questo modo pensava che il padre l’avrebbe probabilmente risparmiata dalla morte perché in fin dei conti era sua figlia mentre non avrebbe visto di buon occhio una totale estranea… difatti così è stato e la ragazzina è stata protetta, anche se la famiglia è stata ovviamente tenuta all’oscuro dei fatti. Quindi il padre dona tutta la sua fortuna alla figlia con la poliomielite, non sapendo in realtà che essa non sia “sua” e “disereda” i gemelli, in quanto si sente in colpa per quello che ha fatto al servo che è stato poi ucciso, vedendoli quindi come figli nati dalla violenza (nonché non suoi , ma solo della moglie).

Dopo questa disamina credo abbia senso partire dall’atto finale ossia a Story Never Told, dove attraverso la voce della domestica si racconta l’amore per sua figlia e dell’inganno che ha dovuto imbastire verso il patriarca puramente come atto di amore e di protezione verso di lei. Ed il brano difatti musicalmente si discosta molto dal resto del disco; un pezzo minimale e delicato, sorretto da pianoforte ed orchestrazioni in cui Åkerfeldt con una timbrica delicata e sognante racconta il “twist” della storia. Davvero espressiva la sua performance vocale, accompagnata da una sezione ritmica stavolta non troppo stravagante, ma che conduce la canzone attraverso degli inserti più folk ed un meraviglioso assolo di chitarra, molto etereo e di stampo “gilmouriano” che sfuma con la fine del brano, per quello che probabilmente rappresenta la composizione dal carico emozionale più intenso del disco, per uno dei tre brani dell’album che superano i sette minuti e uno dei due brani che non vedono per nulla la presenza del growl.

Ma torniamo all’inizio, paragrafo uno del testamento e primo brano (§1). Qui si rivelano alcune delle caratteristiche di questo nuovo platter degli Opeth; chitarre pesanti e serrate che ci riportano ai fasti del passato progressive death della band svedese, un growl abrasivo e cavernoso da parte di Åkerfeldt,  con tuttavia, tanti elementi che ci rimandano al periodo prog rock della band. Questo difatti è un disco complesso e stratificato, che unisce l’abrasività del metal a strumenti come l’hammond, il mellotron, il mini-moog, le orchestrazioni, il pianoforte, e le sezioni acustiche e di arpa, oltre che ad avere tanti elementi che ci fanno scavare meglio nella storia del concept, come le voci sussurrate di corridoio, o le parti in spoken word. Nel primo brano c’è anche la presenza Mirjam Åkerfeldt  (con la sua voce sussurrata),ovviamente figlia del leader della band, il ticchettio di un orologio in sottofondo… tutto è estremamente tetro e misterioso a partire dal testo che ci offre però già delle frasi chiavi per entrare nel contesto di questo concept – “draped in death, the howl of lore”- ci restituisce la figura di un uomo deceduto, avvolto nel drappo della morte, pronto a rivelare attraverso la voce di qualcun altro i segreti e le tradizioni della propria famiglia. La sua voce riecheggia dall’oltretomba – “Alas, my time is at an end, I have wallowed in my self-pity, and I confess to you as part of my final plight”- una dimostrazione di sofferenza interiore, autocommiserazione,  probabilmente del pentimento di un uomo che sa che in vita ha portato tanto dolore e sofferenza a causa delle sue scelte. Ci ha colpito in questo brano come Mikael passi da dei momenti incredibilmente cupi e abrasivi con il suo growl, ad altri che suonano regali ma allo stesso tempo minacciosi con le sue parti in clean, riportando in vita la storia del protagonista del concept. Magnifico lo stacco d’organo sul finale, preceduto dalle chiacchere e le voci dei presenti alla lettura del testamento.

Il paragrafo due (o seconda canzone), rappresenta per quanto ci riguarda uno dei momenti più alti del disco, con quel suo inizio assolutamente abrasivo che ci conduce attraverso un saliscendi di emozioni. D’improvviso difatti, l’assalto sonoro si quieta ed è lo stesso Mikael a sussurrare in maniera sinistra “dreadful daughter, wretched martyr, sick to marrow and to bone”- ovviamente un riferimento alla figlia (o meglio, presunta tale) con la poliomielite. Molto interessante come il padre la dipinga come una “martire esausta, malata fino al midollo e fino all’osso”.  Questo brano è anche una perfetta testimonianza dell’ottimo mix dell’album, che risalta le parti di basso di Mendez che in questo platter brillano particolarmente. Fantastico lo stacco teatrale del pezzo con tanto di spoken word di Ian Anderson (da notare che in questa traccia c’è anche la presenza di Joey Tempest degli Europe in alcune backing vocals). Il suddetto lavoro è fatto di transizioni brusche, che in un secondo ti trascinano via da una sezione brutale e cavernosa, ad un’altra da un tono completamente diverso, come lo stacco quasi in stile natalizio e fiabesco della seconda traccia, dove Mikael intona delicatamente “snow made white, the street of their dreams”, prima che il pezzo ritorni nelle sue tonalità più minacciose.

Il terzo brano ha la particolarità di non avere parti in growl, ma in compenso delle dinamiche strumentali iper-complesse e intricate, che vedono il nuovo batterista insieme a Mendez davvero sugli scudi. C’è un particolare groove di basso verso l’inizio del brano che è pura goduria per le orecchie e che letteralmente “trascina” quella sezione di canzone. Aperture semi-orchestrali e melodiche portano il brano in una sezione più heavy rock alla Sorceress, e di grande impatto è anche l’assolo di chitarra, stavolta di stampo più virtuoso, mentre il brano nel complesso, è una sorta di “back and forth”, tra momenti più spettrali e altri più heavy.

Ancora una sezione ritmica che brilla nell’apertura del quarto paragrafo. Frenetica la prestazione di Åkerfeldt che si dipana tra growl e pulito. Bellissimo lo stacco con tanto di arpa verso l’inizio del brano, dolce e sognante, prima che ci pensi Ian Anderson col suo flauto traverso a riproporci quelle atmosfere folk tanto care ai Jethro Tull. La sezione iper-drammatica nel mezzo della canzone sfocia in un altro assolo dal sapore caldo e avvolgente (un assolo questo, di stampo tipicamente Åkerfeltiano), altri più virtuosi sono stati lasciati al buon Fredrik, come di consueto. Quei riffing nervosi e ripetuti ci portano verso l’intricato finale del brano, che sfuma direttamente nel quinto paragrafo del testamento che è per chi scrive, uno degli episodi migliori del platter.

Si parte con delle sinfonie delicate e toccanti, prima che l’acustica, accompagnata dalla solita sezione ritmica di prim’ordine arricchita dalla voce di Mikael in pulito, ci conduca in alcuni dei momenti più pesanti e abrasivi del disco. Se questo album ha riportato il fattore pesantezza in chiave metal nella musica degli Opeth, non ci sono mai stati in questo disco dei momenti assolutamente brutali e violentissimi come accadeva in brani come The Grand Conjuration , Heir Apparent o Serenity Painted Death. Tuttavia alcuni momenti presentati in questa composizione si avvicinano ad essi, rimanendo comunque coerenti con le tematiche dell’album e miscelandole, specialmente a livello strumentale,  con quel retrogusto progressive anni settanta tanto caro agli Opeth. Ci sono delle sezioni qui dal “flavour” quasi arabeggiante, con la voce di Mikeal che appare sfumata in sottofondo- un tocco esotico e sinistro allo stesso tempo, per una traccia veramente ricchissima e riuscitissima.

Giungiamo ora alla sesta traccia. Essa brilla anche per un bellissimo assolo di mini-moog ripreso poi dalla chitarra elettrica e ancora una volta per l’incredibile drumming di Waltteri Vayrynen nell’incipit del pezzo, accompagnato da delle sinfonie regali ma mai troppo in primo piano. Anche qui ci sono degli “start-and-stop” al cardiopalma con dei riff semplici ma d’impatto e un Mikeal sempre in grande spolvero con il suo growl. Ci ha colpito molto lo sdegno e l’abrasione con cui il leader della band recita in growl “remember grief is a fickle sickness” e allo stesso tempo la solennità di alcune altre sue parti vocali, accompagnate da una band che fa faville dietro di lui. Delicato e quasi floydiano il finale della canzone, sorretto da tastiere e chitarre acustiche per un altro pezzo pazzesco.

La traccia sette benché ci offra degli elementi interessanti non ci ha colpito come le restanti tracce nonostante l’abbondante uso delle parti narrate, sempre comunque e ben riuscite in questo contesto e che danno davvero un tocco sinistro al brano. Ancora una volta interessantissimo l’uso del moog che dipinge dei tessuti sonori avvolgenti e sperimentali, mentre il pianoforte durante le sezioni in “spoken-word” rappresenta un tocco azzeccato. Questo brano tuttavia ha come la sensazione che si trascini un pochino per troppo tempo, specialmente nel finale, nonostante con i suoi sei minuti e mezzo di durata non sia il pezzo più longevo del platter.

In conclusione The Last Will And Testament risulta essere un vero trionfo per gli Opeth che tornano con quello che probabilmente consideriamo come il loro migliore lavoro dai tempi di Watershed. Il ritorno del growl e delle chitarre abrasive, condite con quel retrogusto progressive “settantiano” nella strumentazione e nella ricchezza sonora, rende questo album un’esperienza dinamica e appagante, coadiuvata da un concept intricato ma allo stesso tempo originale. Mikeal Åkerfeldt si tramuta in un attore di primissimo piano per delle liriche ricercate e sofisticate che riesce a riportare in vita in maniera assolutamente credibile, calandosi nella parte in maniera esemplare, per un disco cupo, sinistro, enigmatico, ma allo stesso tempo complesso e multi sfaccettato dove ogni membro della band brilla di luce propria. Insomma una piccola nuova perla per questa straordinaria ed iconica band svedese!

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