Recensione: The Last Witness
Gli Zealotry sono di Boston. Sono nati nel 2005 e, da allora, hanno dato alle stampe un demo (“Radix Malorum”, 2009), un singolo (“Blighted Paradise / Decaying Echoes”, 2012) e due full-length (“The Charnel Expanse”, 2013; “The Last Witness”, 2016).
Fedeli a un certo cliché che tratteggia una notevole tendenza alla contaminazione del death metal, da parte delle nuove band statunitensi, i quattro cavalieri nordamericani, con quest’album, cercano di fissare un sound piuttosto sperimentale. La base, com’è detto, è il death metal. Death metal ortodosso, fedele il più possibile ai dettami primigeni che ne hanno disegnato definitivamente il caratteristico DNA. Molti musicisti tendono a incrociare questo nucleo impenetrabile con il doom e, in un certo modo, lo fanno anche loro. Ma, in più, qui c’è parecchio del polveroso, allucinato, secco flavour dello sludge metal. Non è un aspetto rilevante, in “The Last Witness”, lo sludge. Tantomeno il doom.
Tuttavia, essi concorrono a definire un sound tentacolare, disarticolato, complesso. Potente, rabbioso, eseguito con gran tecnica strumentale ma prodotto in modo volutamente caotico. Sì da dar luogo a quelle visioni mentali che solo certi tipi di elaborazioni musicali riescono a proiettare sull’interno della scatola cranica.
Dato atto del tentativo, da parte dei Nostri, di sviluppare uno stile tutto loro – in parte riuscito – , e di essere riusciti a stimolare l’immaginazione di chi ascolta, quello che, però, emerge passando ripetutamente il platter nel lettore, è il ridetto caos. Troppo. Tanto da instillare una costante sensazione di confusione. Come, ma certamente così non è, se le song fossero suonate a caso, improvvisando, cioè.
Il risultato, allora, non è così buono come le intenzioni di R. Temin e compagni, poiché è impresa impossibile riuscire a trovare un filo conduttore continuo e coerente con se stesso, nel tragitto da ‘Arc of Eradication’ a ‘Silence’. Soprattutto quando si attraversano le paludi di brani trasudanti note da ogni poro, ma dei quali non si riesce a venire a capo in nessun modo, come per esempio dimostra l’ostica e astrusa ‘Cybernetic Eucharist’.
Eppure, gli Zealotry sanno bene come comporre in maniera più razionale e intellegibile. Prova ne sono ‘Progeny Omega’ e ‘Silence’, due suite inequivocabilmente comprovanti che la pensata dell’act del Massachusetts non è così bislacca come, al contrario, potrebbe sembrare dall’analisi della canzone più sopra citata. La loro maggiore linearità strutturale, infatti, unitamente all’uso più incisivo delle tastiere, degli effetti ambient (cori, orchestrazioni, ecc.) e della chitarra acustica, regala momenti di autentica furia visiva, di stravolgimento degli elementi di terra e di acqua.
Se gli Zealotry avessero mantenuto tutto “The Last Witness” sul medesimo piano compositivo di ‘Progeny Omega’ e ‘Silence’, lo stesso “The Last Witness” avrebbe centrato in pieno l’obiettivo di garantire un sound originale assieme a delle canzoni godibili e accattivanti, seppur massicce e arcigne. Così non è stato, ma ciò potrebbe essere un’indicazione per non fallire il prossimo step. Quello che da più parti è definita la prova del nove per un ensemble: l’Opera Terza.
Comunque promossi.
Daniele D’Adamo