Recensione: The Light
Nel 1990 il progressive rock era come una stella a neutroni: destinato al collasso. Almeno in apparenza. Con gli Yes intenti a dare alle stampe Generator e Union, ovvero i due album in assoluto più manieristi e meno ispirati della loro carriera. Con la stella di Rush e King Crimson ormai sul viale del tramonto e con il nome Genesis infangato da Invisible touch. Dall’altro lato, nuove leve come Pendragon e IQ, seppur qualitativamente notevoli, non in grado di ripetere il successo delle band precedentemente citate, mentre pure l’ottimo successo dei Marillion cominciava a rivelarsi effimero.
Comunque niente paura, si è detto che il collasso era apparente. Tramontata la stella europea, in quel 1990 stava per nascere, splendidamente, quella statunitense. In primis grazie ad una band di New York (che l’anno seguente avrebbe inciso il secondo seminalissimo disco) sulla quale per vostra fortuna eviteremo qui di fermarci, dacché se ne è scritto fino allo sfinimento.
Ma tant’è, se New York chiama Los Angeles risponde, sebbene quest’ultima non sia città del progressive ma della psichedelia – il che lascia presagire comunque sviluppi interessanti. La risposta arriva nel 1994, ad opera di un quartetto guidato da due fratelli (i fratelli Morse) e dal nome quanto mai improbabile: Spock’s Beard. Dalle mie memorie di Star trek infatti, il signor Spock non aveva la barba. Memorie tuttavia superficiali, come ebbe a rivelare Alan Morse in un’intervista del secolo scorso, nella quale spiegò che tale bislacco monicker venne alla luce al termine di una bislacca notte al bar, nel momento in cui proprio Alan disse al fratello Neal: “Sembra che siamo finiti in un universo parallelo, come quella puntata di Star trek in cui Spock aveva la barba (Beard). Ma poi. Spock’s Beard! Non è un nome figo per una band?”
E così fu.
Ma tanto strano fu il nome della band, tanto fu, sempre in apparenza, banale il nome del primo full-length, nel suo focalizzarsi sull’oggetto della ricerca di ogni tormentato cuore progressivo, sia esso Peter Gabriel o Jon Anderson: The light, la luce interiore che, coll’andare degli anni, sarebbe divenuta un tunnel senza via di scampo anche per sua santità Neal Morse. E dato il titolo, oggetto della nostra indagine sarà proprio la ricerca della luce gettata dagli Spock’s beard in quegli anni 90 così oscuri per il prog rock. Perché é indubbio che di luce, da Los Angeles ne sia giunta parecchia.
The light si presenta come disco innovativo sin dalla struttura, marcatamente ispirata agli Yes di Close to the edge, con due enormi suite, una canzone relativamente più contenuta e un pezzo decisamente brevilineo (6 minuti sono nulla per il prog) a far da conclusione. A livello sonoro, sebbene ancora forte sia la componente classicista e barocca presente nei riff di chitarre e tastiere, fatta di scale, esplosioni colorate e attimi di riflessiva introspezione disegnata da rapidi tocchi di piano, si possono notare elementi che il prog aveva da tempo accantonato. In primis, se guardiamo all’impervia opener e alla sua struttura circolare, noteremo fin da subito una certa originalità nel cantato di Neal Morse, aspro e sofferto certamente, ma spesso e volentieri pronto a riaddolcirsi, supportato dai cori, fino a strizzare gli occhi alla musica soul e blues che in California aveva, per l’appunto, dato origine alla psichedelia. Oltre a ciò, un’autentica sorpresona arriva verso il duodecimo minuto, laddove i nostri fondono la propria musica a quella latina, con passaggi di chitarra spagnola e testi che lasciavano intendere le crisi mistiche future (posto che il testo di The light sia favoloso, al di là di riferimenti a figure infelici della storia umana e proclami di varia onnipotenza, quando uno ti dice I drink my milk with tabasco i prodromi del collasso psichico sono manifesti).
A seguire viene la più contenuta Go the way you go, che a dispetto di una partenza sulle tracce dei Genesis più acidi, si rivela per un pezzo decisamente uniforme e dall’incedere tranquillo, decisamente improntato a melodie semplici e di facile presa. Volendo fare ancora un parallelismo coi dischi tripartiti degli Yes, Go the way you go occupa il ruolo di And you and I. Oltre ciò, continuano i cori che caratterizzeranno la produzione di Neal Morse siccome le tastiere di apertura cinematografica che caratterizzeranno la produzione di Neal Morse solista o dei primi due dischi dei Transatlantic. Nella terza parte, poi viene prepotentemente a galla l’influenza di band classiche del rock settantiano made in USA, come Kansas o Creedence. Decisamente più complessa The Water, suittona da ventitré minuti dall’incedere estremamente mutevole, dove blues, soul, jazz, prog elettrico, riff cinematografici, Genesis e Pink floyd non vengono fusi, ma giustapposti, dando origine ad un incredibile miscuglio di sensazioni, come solo nelle grandissime suite può accadere.
Chiude infine la “breve” (sei minuti) On the edge, che ancora una volta vorrebbe occupare la nicchia di un Siberian Khatru. Supportata da un riff decisamente catchy, per non parlare delle vocals, procede con un ritmo decisamente rapido e semplice rispetto alle altre composizioni, tanto che non sfigurerebbe dentro all’altro grande classico degli Spock’s Beard, Snow, sebbene quest’ultimo con The light abbia assai poco a che spartire.
Insomma, anche se non avete prestato orecchio a questa piccola pietra miliare del rock, avete capito che la Barba aveva fatto centro al primo colpo, portando alla luce un’opera sì dalle chiare influenze, quanto geniale ed innovativa nel coniugarle a stili musicali lontani tra loro. The light è, senza molte possibilità di discussione, il miglior disco degli Spock’s Beard assieme a Snow, un album di cui avrebbero fatto tesoro innumerevoli gruppi negli anni a venire. Quanto al prog, il genere si apprestava a conoscere una nuova fioritura. Da lì a pochi anni sarebbero venuti fuori i Flower Kings, si sarebbero convertiti del tutto i Porcupine tree (citando due esempi a caso) e i due gruppi statunitensi avrebbero continuato a sfornare ottimi dischi fino alla fine del millennio.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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