Recensione: The Living Infinite

Di Stefano Burini - 17 Marzo 2013 - 14:20
The Living Infinite
Band: Soilwork
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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85

Dopo alcuni album, per così dire, “controversi” (lasciamo alla sensibilità di ognuno stabilire quale più e quale meno tra i vari), i Soilwork si ripresentano sul mercato nel 2013 di nuovo orfani di Peter Wichers (prontamente sostituito da David Andersson, già visto ai tempi del primo split con il chitarrista) e con un doppio CD dal titolo “The Living Infinite”.

Diciamola tutta: le premesse non erano delle migliori: quanti di voi (noi, in realtà) hanno (abbiamo, dunque) pensato che gli svedesi avrebbero finito per fare il passo più lungo della gamba? Molti probabilmente, visto il grande quantitativo di esempi in materia. Dai Metallica di “Load” e “Reload” al famoso “Keeper Of The Seven Keys – The Legacy” degli Helloween, passando per “Gods Of War” dei Manowar, tanto per citare tre “big”, sono davvero molto gli album (singoli, doppi, “operistici”, semplicemente insopportabilmente lunghi) partiti con grandi ambizioni e in realtà penalizzati dall’eccessiva ridondanza delle trame e da una qualità altalenante all’interno di tracklist così estese.

Per fortuna non è questo il caso del nuovo nato in casa Soilwork: “The Living Infinite” è, infatti, un album duro e compatto ma nel contempo accessibile, in grado di definire un nuovo punto di equilibrio per il binomio violenza/melodia come forse non capitava dai tempi di “The End Of Eartache” dei Killswitch Engage. Manco a dirlo le ben venti canzoni in scaletta si reggono tutte, seppur in percentuali ovviamente differenti da brano a brano, su quelle che da sempre si configurano come le colonne portanti del sound degli svedesi: sezione ritmica varia, potente e precisa, chitarre dal riffeggiare perpetuo, senza pause né incertezze, preziose keys sintetiche a fornire rifiniture di gran classe e, last but not least, il sensazionale vocalismo di un Björn Strid in forma mondiale.

“Spectrum Of Eternity” mette, in effetti, in chiaro le cose fin dal principio, riportando a galla qualche riff di stampo melodic death svedese primi anni 2000, chitarre armonizzate e assoli di discendenza hard ‘n’ heavy, fondendo il tutto con il primo di una lunga serie di ritornelli ultra melodici che hanno il grande merito di non risultare (quasi) mai pacchiani né scontati. “Memories Confined” è più cadenzata, con le enormi chitarre in primissimo piano a rubare il ruolo di prim’attore a Björn Strid, ad ogni modo sempre autori di linee vocali interessanti per nulla scontate, mentre “This Momentary Bliss”, con il suo andamento veloce e sbarazzino, strizza l’occhio con convinzione tanto alle frange più “emo” del movimento metalcore, quanto a certi stilemi tipici del metal di ultimissima generazione (Periphery, “Scarlet”), quello che loro stessi hanno contribuito a creare e (ri)definire.

Con la successiva “Tongue” incappiamo forse nella canzone meno brillante di tutto l’album: priva di quel miracoloso equilibrio che caratterizza (per fortuna) buona parte delle restanti, cede il passo in virtù di strofe anonime e di un pre-coro troppo dolciastro, incappando in certi “peccati” che fecero storcere il naso a parte dell’uditorio ai tempi di “The Panic Broadcast”. Decisamente notevole, viceversa, il break di matrice prog rock dal terzo minuto in avanti.

La prima parte della title track ha, di nuovo, qualcosa degli ultimi Periphery e si giova della contrapposizione tra le ritmiche granitiche dettate da chitarre secche e distorte e la bella rifinitura di tastiera. Le vocals prendono gradualmente quota evidenziando la grande abilità di Strid nel passare con estrema disinvoltura da un growl esaltante a delle partiture in pulito che lasciano senza fiato per la bellezza e l'(apparente) semplicità. Lo schema si ripropone, poi, abbastanza fedelmente ma con nuova ispirazione, nella forsennata “Let The First Wave Rise”. “Vesta” stupisce per l’incipit a base di chitarre acustiche dal sapore quasi western per poi incanalarsi velocemente sui binari del tipico Soilwork-sound; la melodia vocale è, senza troppi giri di parole, splendida e in grado di emozionare e arrivare dritto al cuore, sciorinando anche qualche inaspettata reminiscenza targata addirittura Police. Discorso analogo per “Realms Of The Wasted”, mentre continua a stupire la totale mancanza di filler o di cali d’intensità. “The Windswept Mercy” bazzica territori cari ai Bullet For My Valentine e ai Trivium più leccati, ma lo fa, in una parola, meglio: senza togliere aggressività alle chitarre e alla sezione ritmica come accadeva, ad’esempio, in molti episodi di “In Waves”. Il primo disco si chiude con “Whispers And Lights”, nella quale il sestetto svedese osa decisamente di più, componendo un brano molto particolare, caratterizzato da alcuni tratti somatici tipici della semi-ballata nelle strofe prima di sfociare in un altro refrain da mille e una notte.

La strumentale “Entering Aeons” inaugura il secondo CD in maniera inconsueta, spezzando il ritmo finora sostenutissimo e preparando il terreno per “Long Live The Misantrophe”, pezzo diretto e sorretto da chitarre che mulinellano riff vorticosi senza sosta (oltre che dal centomilionesimo ritornello “clean” decisamente riuscito ed efficace). Azzeccatissima la scelta di lanciarlo come singolo.  La seconda parte dell’album si gioca, come prevedibile, sulle medesime coordinate della prima ma, fatto decisamente meno ovvio, senza ripetere stancamente quanto già udito né riempiendo i minuti con filler di sorta.

Da questo fertile humus prendono vita alcune canzoni tipicamente “made in Soilwork” cui Strid dona un apporto in termini di ricerca melodica assolutamente encomiabile, da “Drowning With Silence” a “Rise Above The Sentiment”, passando per la seconda parte della title track, forse ancor meglio della prima. A fianco di essi trovano spazio anche tracce più atipiche ma, non per questo, meno riuscite come le townsendiane “Antidotes In Passing”, per certi versi non lontana, in termini di arrangiamenti e suoni, dall’AOR spaziale dei Millenium, e la più thrashy e violenta “Leech”, forte di un refrain in grado di inerpicarsi sulla scoscesa rupe creata da tutti gli strumenti e spiccare meravigliosamente il volo.

Impossibile, d’altro canto, non citare l’ottima strumentale “Loyal Shadow”, posizionata al momento giusto, la riuscitissima “Parasite Blues”, con il suo riff equiparabile, per potenza e velocità, ad un autoblindo in corse folle sull’autostrada e, ancora, la conclusiva “Owls Predict Oracles Stand Guard”, con quelle chitarre che hanno in sé la possanza e la perseveranza delle onde che si infrangono perpetuamente contro gli scogli, le ritmiche dal tiro micidiale e il growl di Speed più che mai townsendiano.

E’ sempre difficile e “compromettente” dare un voto alto ad un album appena uscito: nessuno ha la possibilità di predire il futuro e di capire in anticipo quali eventuali proseliti/terremoti possa creare un lavoro sul mercato da due settimane scarse e, quindi, quale possa essere il suo reale (plus)valore da un punto di vista storico. Limitiamoci, dunque, a parlare di musica e, per fortuna, in “The Living Infinite” ce n’è tanta e (quasi) tutta di altissimo livello: per ora va bene così, per il resto ai posteri l’ardua sentenza.

Stefano Burini

 

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