Recensione: The Long Road North

Di Costanza Marsella - 9 Febbraio 2022 - 14:33
The Long Road North
85

È complesso individuare nel panorama contemporaneo una band che non abbia, in una lunga carriera, sbagliato un disco o licenziato un prodotto sottotono eppure, secondo la modesta opinione di chi scrive, i Cult Of Luna sono perfettamente riusciti in questo intento. Certo, la loro sintassi musicale non risulta di semplice o immediata metabolizzazione, sicché la comprensione dei loro lavori richiede uno sforzo non di poco conto, ragion per cui non raggiungeranno mai i fasti del grande pubblico eppure potremmo, senza timore di esagerare, definirli come una delle band più rilevanti ed influenti del panorama post-alternative contemporaneo. Ed ecco dunque che dopo il riuscitissimo A Dawn To Fear, la band torna alla nostra attenzione con un nuovo lavoro, The Long Road North.

Sin dalle premesse e dalle dichiarazioni della band, quest’ultimo si pone come il loro lavoro più cinematografico, tant’è che ne verrà realizzato un gioco online al fine di aiutare gli ascoltatori ad immergersi nella sua atmosfera. Oltre a ciò. The Long Road North rappresenta, a livello fenomenologico, l’incarnazione del sofferto viaggio interiore del mastermind Johannes Persson, che lo ha reso in grado, negli ultimi due anni, di trarre nuova ispirazione per la sua musica, a partire dal caos emotivo in parte rappresentato da A Dawn To Fear. Nuove prospettive e consapevolezza, dunque, che ci conducono all’album con flow e godibilità inaspettati sin dai primi ascolti, sebbene ciò non voglia dire che i Cult of Luna abbiano semplificato o parcellizzato il proprio amalgama. Ci troviamo invece dinanzi la rappresentazione più compiuta della loro carriera: ritroviamo intatti, sin dalla opener Cold Burn, layers chitarristici massicci e punteggiati da armonizzazioni drammatiche, le linee vocali chiaroscurali di Persson, nonché una sezione ritmica mastodontica ed onnipresente. Questa fitta trama è lacerata, come di consueto, da sezioni maggiormente rilassate e melodiche, adombranti un gusto ed una padronanza degli arrangiamenti che ha pochi eguali nel contesto attuale. La consueta ricetta potremmo pensare, dunque, ma in qualche maniera ripensata e sviscerata, in grado di recuperare quanto di rilevante e più riuscito vi fosse delle sperimentazioni compiute in passato, anche in virtù della presenza di ospiti di rilievo; ed è in tal senso che assumono particolare lustro  Beyond I e Beyond II: se la prima è un magnetico e riuscito esercizio di stile, in cui la cantante svedese  Mariam Wallentin modella la propria ispirazione su una base tastieristica scarna, in grado di lasciare ampissimo spazio alla sua velleità espressiva, la seconda, sgorgata dalla collaborazione con  Colin Stetson, assume quasi le vestigia di una colonna sonora di un film di fantascienza, delineando paesaggi astrali ed ignoti, a seguito di un sopraffino lavorio di synth. Ed ancora, menzione particolare merita Full Moon, dal flow quasi western e che, nella sua relativa brevità, riesce efficacemente ad evocare pianure polverose e soleggiate. La titletrack rappresenta quasi una summa delle sonorità presentate in tutto il disco, con la sua apertura cadenzata ed incisiva, che ci introduce lentamente al cuore della composizione, trafitto da un riffing dal sapore solenne ed austero, ben presto dischiudentesi in un toccante dialogo tra le sei corde e le tastiere, la cui godibilità rappresenta la cifra della poetica dei Cult of Luna.

Meritevole di particolare attenzione è inoltre la produzione, veramente ben congegnata. Quest’ultima, difatti, non suona forzatamente moderna o pompata – come del resto non è mai stato nello stile della formazione. Le timbriche sono sporche, soprattutto le chitarre molto cariche su frequenze alte e in termini di presence, i bassi sono molto presenti ma anche molto ben isolati tra fusti della batteria e basso – rotondo e in grado di bucare il mix – che sono perfettamente udibili nel loro spazio. Non ci sono strumenti che sovrastano gli altri, nemmeno chitarra solista o voce, che sono sempre amalgamati. Il mix appare impeccabile, con immagine stereo ordinata ed un mastering “gentile” che conserva diverse dinamiche e garantisce una loudness contenuta per un disco metal.

Se dunque i fan di lungo corso non hanno alcuna scusa per non far proprio e consumare questo disco, non risulta iperbolico affermare di quanto The Long Road North rappresenti una delle produzioni più significative ed iconiche degli ultimi anni, ponendoci dinanzi ad una formazione all’acme della propria maturità ed espressività.

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