Recensione: The Lord of Steel – Final Edition
Rullino i tamburi e squillino le trombe per il ritorno dei Manowar a caccia del Guinnes dei primati: dopo aver vinto il premio come gruppo più rumoroso del mondo, oggi possono reclamare un nuovo riconoscimento per il remaster più a ridosso dell’uscita di un album mai pubblicato. L’edizione fisica di The Lord of Steel esce infatti quasi cinque mesi dopo l’uscita digitale, rinforzata da una nuova produzione e da varie altre migliorie o, almeno, questo è quello che ha affermato Joey De Maio. Sarà vero?
Prima di lanciarci nella recensione dell’edizione fisica dell’ultimo nato in caso Manowar, ricapitoliamo, per i meno attenti, gli ultimi anni della band: nel 2007 esce Gods of War, un polpettone epicheggiante (perché l’aggettivo “epico” è veramente abusato) e pomposissimo, figlio di una sorta di crisi mistica che ha avvicinato Joey De Maio alla musica di Wagner o, forse, del successo del power/heavy più sinfonico e della moda del tema mitologico scandinavo, da sempre esistita ma davvero lanciatissima a metà decennio dalla crescente scena pagan/folk. Gods of War è un disco che, al di là del suo valore effettivo, è riuscito a scatenare le reazioni più discordanti: l’assoluta nausea, la delusione, ma anche disperati tentativi di rivalutazione e addirittura l’esaltazione a capolavoro. Dopo cinque anni di promesse, o minacce, a seconda dei gusti di ciascuno, di proseguire sulla strada di Gods of War, i Manowar invertono decisamente la direzione e se ne escono con un disco, questo The Lord of Steel, tra i più capaci, nella lunga carriera della band, di mettere d’accordo tutti, dai detrattori ai fan più sfegatati. Un disco assolutamente mediocre, sulla falsariga dei dischi trazionalmente considerati “di passaggio”, Fighting the World e Louder than Hell, ma privo di highlights come Black Winds Fire and Steel o Courage.
Tamarro e arrogante come tradizione vorrebbe, a partire dal riffaccio della title track per arrivare a quello di Expendables, ma davvero sottotono e accompagnato da una costante sensazione di svogliatezza da parte dei quattro newyorkesi. I brani più promettenti rimangono chiusi in loro stessi e non esplodono mai, affossati da un Eric Adams monocorde, non incapace, ma tenuto palesemente al guinzaglio per ragioni che trascendono la logica e da un Logan che, tanto per cambiare, non osa, non esalta, si limita a svolgere il compitino. Inutile parlare dei testi, al limite dell’autoparodia, che stavolta non potranno non far storcere il naso anche al fan più sfegatato: dai soliti inni per il vero metallo ai motivazionali che tanto commuovono i fan, come Touch the Sky, per molti versi uno scialbissimo tentativo di riscrivere il testo di Mountains.
Di fronte a un lavoro tanto mediocre, può una semplice rimasterizzazione compiere il miracolo?
Naturalmente no, specialmente se le differenze rispetto alla Hammer edition sono così poche e così lievi: il volume eccessivo del basso di De Maio, uno degli aspetti più criticati della versione digitale, è stato ridimensionato solo parzialmente e la disturbante sensazione di avere l’amplificatore sfondato continuerà ad accompagnarvi per tutto l’ascolto di The Lord of Steel. Quindi uno dei principali difetti di produzione di The Lord of Steel, che non avrà mancato di esaltare qualcuno per i rimandi alla produzione più grezza delle origini, non va considerato un difetto, ma una scelta voluta. Secondo chi scrive, la produzione grezza è tollerabile per realtà che non possono permettersi di meglio, non come tentativo artificioso di ricostruire un sound da lungo tempo abbandonato da parte di una band che può permettersi e si è concessa di meglio. All’interno dei brani ci sono dei cambiamenti, ma molto leggeri: qualche secondo in più di intro per Born in a Grave, qualche secondo in meno all’interminabile Black List, i coretti di Touch the Sky un po’ più in primo piano. L’unica vera novità è Kingdom of Steel, una ballatona acustica piazzata in coda come bonus track: il brano, piuttosto manieristico, è una sollenne quanto piacevole nenia che vorrebbe essere una nuova The Crown and the Ring e in questo fallisce, si; ma fallisce assai dignitosamente, risultando, a sorpresa, tra i migliori brani del disco.
L’edizione fisica di The Lord of Steel è quindi un prodotto, se non proprio inutile, riservato solo ai fan più sfegatati, insieme a tutto il resto del merchandising che la band, a onor del vero non diversamente da molti altri anziani colleghi, produce a ritmi incessanti. Il vantaggio commerciale della scelta della doppia pubblicazione, prima digitale e poi fisica, rimane quindi avvolto in una fosca nube di mistero. In conclusione, Lord of Steel era e rimane un disco incolore e mediocre, non così brutto da essere pessimo ma nemmeno così bello da salvarsi dall’oblio. Tuttavia, chi volesse comunque procedere all’acquisto e fosse indeciso su quale delle due edizioni prendere dovrebbe puntare senza dubbio sull’edizione fisica. A coloro che hanno già acquistato l’edizione digitale, lo sforzo e soprattutto lo sborso di ulteriore denaro sono sconsigliati se non per ragioni di mero collezionismo.
Federico “fritz” Vicari
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Tracklist
1. The Lord of Steel
2. Manowarriors
3. Born in a Grave
4. Righteous Glory
5. Touch the Sky
6. Black List
7. Expendable
8. El Gringo
9. Annihilation
10. Hail, Kill and Die
11. Kingdom of Steel