Recensione: The Maldoror Chants: Old Ocean
A distanza di ben cinque anni dallo splendido “Hearts of No Light”, l’entità Schammasch si manifesta in tutta la sua magniloquente desolazione e misantropia. Il combo svizzero, capitanato da Christopher Ruf, torna a diffondere il proprio verbo con il nuovo, attesissimo “The Maldoror Chants: Old Ocean”. In questo quinto full length gli Schammasch decidono di approfondire ulteriormente l’opera di Lautréamont (pseudonimo di Isidore Ducasse, n.d.a.), intitolata “I Canti di Maldoror”. La formazione elvetica si era avvicinata a Lautréamont, per la prima volta, con l’EP “The Maldoror Chants: Hermaphrodite”. Con “The Maldoror Chants: Old Ocean”, quindi, ci troviamo a vivere una sorta di seguito di quell’EP. Per l’occasione, e come richiama il titolo del nuovo album, gli Schammasch decidono di ripercorrere “I Canti di Maldoror” approfondendo il capitolo legato a “Il Vecchio Oceano”. Un passaggio molto particolare dello scrittore francese, in cui incontriamo l’enigma indecifrabile su cosa sia più profondo, più sondabile: la profondità intrinseca dell’oceano o quella abissale del cuore umano? Un percorso che ci porterà a incontrare la declamazione conclusiva, dedicata all’oceano, dove l’autore d’oltralpe paragona il flusso della vita umana alle onde generate dal pelago. Gli uomini sono quindi delle onde viventi. Alla loro fine, però, non lasciano alcun rumore, nulla di simile a un fragoroso ruggito, nessuna spettacolare dissolvenza. Gli uomini, al contrario delle onde, muoiono in modo triste.
È con questa base di partenza che ci dobbiamo affacciare a “The Maldoror Chants: Old Ocean”, il nuovo lavoro degli Schammasch. Sì, perché le composizioni rappresentano la perfetta colonna sonora dell’opera di Lautréamont. Sei sono le tracce che caratterizzano “The Maldoror Chants: Old Ocean”, sei canzoni intrise di oscurità, desolazione, maestosità. Un album decadente, ma che sa essere nero come la pece. Un disco che necessita di essere ascoltato dall’inizio alla fine, testi alla mano: solo in questo modo potremo realmente entrare in contatto con la volontà della band, con la sua visione artistica e filosofica. “The Maldoror Chants: Old Ocean” è un lavoro articolato, che richiede attenzione per poter essere compreso e apprezzato. È un album frutto di una visione artistica a tutto tondo: considerarne la sola dimensione musicale sarebbe riduttivo. Credo sia quasi inutile sottolineare come “The Maldoror Chants: Old Ocean” sia un lavoro che si discosta anni luce dai prodotti easy listening che imperano il mercato attuale.
Ma cosa aspettarci da “The Maldoror Chants: Old Ocean”? La risposta è semplice, quanto ambiziosa: un’ulteriore evoluzione del sentiero intrapreso dagli Schammasch con gli ultimi album, da “Triangle” in poi. Qui ci troviamo al cospetto di un “Hearts of No Light” all’ennesima potenza. E non diciamo questo con l’intento di parlare di velocità e impatto: no, “The Maldoror Chants: Old Ocean” va ad amplificare la visione introspettiva della band, la pesantezza e l’oscurità delle composizioni, così come la loro teatralità. Proprio in merito alla teatralità, la prova di Ruf al microfono è qualcosa di magniloquente. Sembra impersonare lo spirito di Lautréamont, pronto a recitare con enfasi, sofferenza, rabbia e provocazione il capitolo dedicato a “Il Vecchio Oceano”.
“The Maldoror Chants: Old Ocean” è un’opera carica di contenuti, capace di aprire le menti, un lavoro dedicato a tutti gli ascoltatori che vogliono andare oltre gli stereotipi, i limiti prestabiliti dalla classificazione dei generi. È sufficiente mettersi comodi, premere il tasto play e lasciarsi trasportare dall’album per attraversare un oscuro portale, entrare in una dimensione parallela e vivere emozioni nuove. La qualità delle composizioni è elevatissima, in tutta la durata del disco. Canzoni che rappresentano un autentico caleidoscopio d’oscurità, una continua evoluzione in cui incontriamo partiture lente e decadenti, altre più pesante e marziali, fino ad arrivare alle accelerazioni in blast beat e a dei cori propri della scuola ellenica. Il singolo ‘They Have Found Their Master’ e la splendida ‘Image of the Infinite’ rappresentano alla perfezione quanto appena descritto. E che dire dei suoni? Risultano curatissimi, ricercati, calzano a pennello con il concept e la concezione musicale della band. Un plus che valorizza ulteriormente un platter riuscito in ogni suo dettaglio.
Ci troviamo quindi al cospetto del disco dell’anno? Difficile dare una risposta ora. Di sicuro “The Maldoror Chants: Old Ocean” è uno dei candidati a ricoprire tale ruolo, e scusate se è poco. Gli Schammasch, inoltre, si confermano come una delle formazioni dalla visione artistica più completa, articolata e ricercata che l’attuale scena della musica dura possa offrire. Un nome importantissimo, la cui proposta risulta proiettata al futuro, di difficile comprensione nel presente. Una caratteristica propria di tutte le band destinate a diventare leggenda nel corso degli anni. Chapeau.
Marco Donè