Recensione: The Mantle

Di Satyr - 10 Aprile 2003 - 0:00
The Mantle
Band: Agalloch
Etichetta:
Genere:
Anno: 2002
Nazione:
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85

Come già era emerso dal primo lavoro del terzetto statunitense, anche questo The mantle non si discosta più di tanto dallo stile proposto da questi 3 ragazzi provenienti dall’Oregon, terra non certo famosa per aver dato i natali a gruppi metal, e cioè un gothic dalle tinte dark, folk e qualche spruzzata di black. Gli Agalloch non mancano il bersaglio e ci regalano un album ancora più sofferto ed emozionante del precedente, intriso di malinconia e tristezza. Le canzoni sono avvolgenti e cariche di sentimento. Ad iniziare con l’intro acustica A celebration of the death of man, dove un arpeggio di chitarra unito a sprazzi di chitarra elettrica creano un’ottima atmosfera triste e desolata, che prosegue con In the shadow of our pale companion, lunga traccia di oltre 14 minuti sulla stessa impronta stilistica della precedente dove Haughm alterna, con un risultato eccellente, cupe e intense voci pulite a screaming a volte appena sussurrati, creando un effetto molto evocativo. Segue poi la strumentale Odal, che oltre agli arpeggi di chitarra e ad un sottofondo di marcia scandito dalla batteria, inserisce nel finale un pianoforte che introduce la prossima canzone, I am the wooden doors, forse le più “tirata” dell’album, ma anche tra le più belle, in quanto riesce ad unire perfettamente la componente atmosferica e desolata tipica del gruppo senza penalizzare in alcun modo la forza e la cattiveria sprigionata dalla voce di Haughm. The lodge è invece un altro strumentale incentrato su un ipnotico arpeggio di chitarra che spiana la strada ad un’altra bellissima canzone leggermente più tirata, You were but a ghost in my arms, dove si alternano ancora voci pulite e screaming. The Hawthorne passage è un altro lungo pezzo strumentale, dedicato alla grigia vita della città. Come al solito molto sofferto e intenso, rivela però nella parte centrale, quasi a sorpresa, un assolo di chitarra che mi ha ricordato i Van Der Graaf Generator. Prosegue poi alternando lenti e ipnotici arpeggi a parti più “heavy” senza mai diradare la densa nube di tristezza che pervade tutto l’abum. Si arriva a …And the great cold death of the earth, dove continuano a farla da padrone i lunghi arpeggi della chitarra di Anderson e la voce di Haughm, su un sottofondo di chitarre distorte che non possono lasciare l’ascoltatore indifferente. Si chiude con A desolation song, dove Haughm canta con voce sussurrata per tutta la durata della canzone su un sottofondo di chitarra acustica e con un bell’assolo di mandolino nella parte centrale. Traccia se possibile ancora più intensa delle altre, dove la tristezza è quasi palpabile. In conclusione un disco a mio parere semplicemente stupendo. Questi tre ragazzi hanno talento da vendere ed è un peccato che siano poco conosciuti, perchè meriterebbero ben altri spazi.

01. A Celebration For The Death Of Man…
02. In The Shadow Of Our Pale Companion
03. Odal
04. I Am The Wooden Door
05. The Lodge
06. You Were But A Ghost In My Arms
07. The Hawthorne Passage
08. …And The Great Cold Death Of The Earth
09. A Desolation Song

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