Recensione: The Missing Link
Passa appena un anno dall’uscita del capolavoro Trapped quando i Rage, nel 1993, mettono sul mercato un altro disco che sarebbe stato destinato a rappresentare una importantissima fetta della storia loro e del power metal, ovvero The Missing Link. Così come il suo predecessore, The Missing Link appartiene a quella categoria di album della parte centrale della carriera del combo di Peavy Wagner, ovvero quella dove il loro sound stava subendo la prima, significativa, evoluzione, che li porterà da un suonato privo di schemi, basato molto sulle improvvisazioni compositive, orientate allo scopo di rendere le canzoni “casinare”, a un tipo di sonorità decisamente pesanti, aggressive, roboanti, ma che avrebbero seguito precisi schemi metrici. Il sound è aggressivo ma non pesante quindi, le varie sequenze sonore sono suonate ad una rapidità decisamente superiore alla media, ma senza scadere nel classico power da quattro soldi (quello che per inciso fa l’80% delle band di oggidì), mantenendo una certa varietà
ed originalità di base. Tecnicamente l’album è suonato decisamente bene, secondo i classici canoni a cui ha abituato il gruppo, quindi dimenticatevi tastiere, coretti e tutto il resto. Qui le chitarre girano a mille, la batteria è funambolica e il basso di Peavy da il suo buon contributo, senza eccedere. Lo stesso vocalist si mette in mostra con una più che discreta prova di canto, lasciando trasparire una voce roca ma non sporca, non ancora dura ed incisiva come quella che avrebbe caratterizzato le produzioni future, ma nemmeno urlata ed acuta come nei primi dischi. Una giusta via di mezzo, che tra l’altro sorprende in quanto riesce anche a ricreare una buona base melodica in diversi tratti, non il particolare che si nota di più nel signor Peavy Wagner. Ma passiamo al sodo. The missing Link si apre con un pezzo tra i migliori dell’album, ovvero la splendida “Firestorm”. Introdotta da una sirena dei pompieri che segnala un allarme, la song si sviluppa in una traccia che nonostante la grande velocità di cui e dotata, trasmette un alone di calma e quasi relax, sensazione accentuata dal timbro vocale di Wagner, mai arrabbiato, al contrario delle chitarre che mietono vittime sullo sfondo.
Ottimi i cambi di ritmo, netti ma sempre legati fra di loro, ottima pure la batteria. Da un gran pezzo ne giunge subito un altro, ovvero “Nevermore”, e nemmeno qui si scherza. Si viene subito rapiti da un riff cattivo e che non lascia scampo, per poi venire introdotti in questo mid tempo, decisamente meno imponenente dell’opener, eppure che risucchia come in un turbine. La canzone è piuttosto uniforme, senza grosse differenze fra strofe e refrains, ma è dotata di un assolo unico, che parte distorto per poi evolversi un una eccellente sequenza di note, degne davvero di nota (e scusate il gioco di parole). Terza track, terzo riff introduttivo pauroso, stavolta quello di “Refuge”. Veloce e e dotata di splendido bridge, Refuge possiede anche un eccellente ritornello, nonchè un Peavy in ottimo spolvero, melodico e con le punte di voce acuta che lo identificavano fino a pochi anni prima. Clamoroso l’arpeggio centrale, che spezza davvero la canzone per un attimo, eccezionale. Se Refuge è un piccolo ritorno al passato, con “The Pit
and the Pendulum” si fa un balzo nel futuro. L’atmosfera è cupa e vi regna un riff granitico, che sovrasta l’ascoltatore di questo bel mid tempo, forse un pò scontato alla lunga, ma che non lascia di sicuro indifferenti. Selvaggio il drumming (qui la batteria è decisamente il miglior strumento della traccia, se non del disco) che introduce “From the Underworld”, traccia che schiaccia i sassi con la sua violenza sonora. Lo stile è sempre orientato verso quello di Black in Mind, ma il cantato di Peavy distoglie da questi pensieri, con la sua notevole pulizia e melodicità nelle parti salienti. L’assolo è assassino. Inquieto e da brividi l’arpeggio che introduce la massiccia “Certain Days”. Canzone malvagia e cupa se ce n’è una, le urla del singer e i riff affilati come lame fanno davvero accapponare la pelle, se pensiamo alle song ascoltate finora. La voce abbastanza filtrata di Wagner (in alcuni spezzoni) serve per evidenziare il clima nel quale veniamo a trovarci, tutto tranne che sereno. Grande song, pur nella sua glacialità e durezza, Certain Days è seguita da “Who Dares?” che per certi versi è l’antitesi della precedente. Pur se basata su riff molto duri, qui non vi è alcuna traccia di malvagità, ma quantomai di frenesia, con giri veloci che inducono a fare headbanging e che introducono il divertente e coinvolgente, quasi in stile “Endofalldaysiano” bridge. Il livello qualitativo è finora costante ed elevatissimo, e così si mantiene pure per “Wake me when I’m Dead”, canzone stranissima, impossibile da spiegare con le parole. La melodia è inizialmente tutta distorta, così come la voce è quasi straziante, fino ai 4 colpi di bacchette che fanno esplodere la song in tutta la sua impressionante ritmica. Se uno riesce a scampare al primo pezzo, che può davvero, nella sua stranezza, indurre a cambiare track, ha fatto un affare, perchè si trova l’ennesimo super-pezzo, tutto da godere. Un gelido vento ci introduce negli splendidi arpeggi di “Lost in the Ice”, traccia lenta…. all’inizio. All’inizio perchè dopo poco diventa un uragano di potenza, con riff sfregianti, almeno… per un pò. Perchè poi torna l’arpeggio, e poi la parte ruggente, eccetera. Questa è Lost in Ice, un eccellente unione di 2 brani estremamente differenti fra di loro, che formano un tutt’uno prorompente, assolutamente da sentire. Bellissimo quello che io identifico come refrain, anche se in una canzone che mescola tratti così diversi, dire refrain è un pò inappropriato. Impressionanti i due assoli, quello melodico e quello pirotecnico, che si susseguono uno dopo l’altro. E dopo la lunghissima Lost in the Ice si arriva di gran carriera alla roboante e dura “Her Diary’s Black Pages”, canzone che miscela alla rabbia delle chitarre, davvero in stato di grazia qui, a una melodia di base non da tutti i giorni. Ottimo e ben udibile il basso, come mai era stato nelle tracks precedenti. Finalmente, dopo ben 10 pezzi, siamo giunti a quello che dà il nome al disco, ovvero “The Missing Link”. La traccia mantiene pienamente alle responsabilità che le sono state assegnate, e ci accompagna tra riff molto alti di tonalità, in un mid tempo tendente al veloce, che forse nel complesso è il migliore del disco, anche se non ci metterei la mano sul fuoco. Bellissime ed azzeccate le combinazioni strumentali, in tutte le parti della song, dalle strofe, all’assolo, al refrain, una vera e propria manna di tecnica per le orecchie. Peccato che anche questa “cosa” debba finire, lasciando il posto all’ultimo pezzo dell’album, ovvero “Raw Caress”. Aperta da un “canto” di gabbiani, Raw caress ripronone un pò lo stile musicale della title track, miscelato a delle strofe arpeggiate, con il il rumore di onde marine sullo sfondo, per una combinazione di dolcezza e cattiveria di davvero alto livello, l’ideale per chiudere il disco.
Riassunto! Alla prova dei fatti, questo “The Missing Link” rimane il mio disco meno gradito tra i 5 mostri sacri composti dai Rage (Trapped, Black in Mind, Lingua Mortis e End of All days gli altri), ciò non toglie che ci troviamo di fronte ad un album di rara bellezza ed efficacia, ennesima dimostrazione di come Peavy Wagner e compagni sappiano evolvere la loro musica senza mai scadere nella mediocrità. Diffidate delle imitazioni, questo è vero power, e con le palle quadrate.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) Firestorm
2) Nevermore
3) Refuge
4) The Pit and the Pendulum
5) From the Underground
6) Certain Days
7) Who Dares?
8) Wake me when I’m Dead
9) Lost in the Ice
10) Her Diary’s Black Pages
11) The Missing Link
12) Raw Caress