Recensione: The Mortal Horizon
Nati originariamente come duo, i Desescresy hanno da poco assunto lo status di one-man band con il solo Tommi Grönqvist a occuparsi di tutto, dalla voce ai vari strumenti; fattispecie di formazione con la quale sono giunti sul mercato il loro quinto nonché ultimo full-length, “The Mortal Horizon”.
Che, a dispetto delle apparenze, non è un disco di old school death metal ma, come affermato dallo stesso Grönqvist, di death metal così come andrebbe suonato oggi. E, in effetti, così è: “The Mortal Horizon”, seppur intriso, questo sì, di un soffocante flavour vecchio e stantio, cerca di mantenere le coordinate stilistiche centrate su quelle oggi più in voga. Vecchia scuola no, ortodossia sì, insomma.
Purtroppo – per il Nostro – la drum-machine, anche adatta allo scopo, toglie molto spirito alle composizioni, poiché priva il suono dell’irripetibile groove umano come dimostra ‘Horizon Blazing’, troppo schematica e robotica per via di battute manifestamente meccaniche. Le quali, con il genere proposto, c’entrano poco o nulla.
Questo è un po’ un peccato, giacché il mood dell’album, al contrario, è perfettamente centrato su atmosfere horrorifiche, malsane, pregne di ombre oscure, morbose e malate. Complice anche il roco growling di Grönqvist, quasi un soffio, un bieco sussurro di amarognola putredine. La capacità visionaria di quest’ultimo non è affatto male, e il dipanarsi delle song di “The Mortal Horizon” trasporta l’immaginazione dell’ascoltatore in claustrofobici ambienti ribollenti ancora follia, ancora schizofrenia (‘Excavation’), dettate, queste, dallo svolgimento convulso di feroci blast-beats.
Si può quindi ben affermare che lo stile messo in piedi da Grönqvist sia più che buono. Nulla di innovativo, è chiaro, bensì death metal puro. Esattamente come da premesse. Brani come ‘Concealed Depths’ sono proprio lì, apposta, per dimostrare l’assoluta fedeltà alla causa da parte dei Desescresy.
Brani che, però, anche loro, risentono dei pattern troppo elementari della batteria che, quasi ovunque, tende ad appiattire lo spessore che potrebbero avere i pezzi medesimi, semplificando oltremondo l’effetto complessivo (‘Concealed Depths’). Semplificazione che diviene significativa nelle canzoni più lente e cadenzate, come l’ossianica ‘Atrophoid’, ottimo esempi di discesa nei meandri più nascosti della psiche umana, alla scoperta di orrori ancestrali, inevitabilmente guastata da ritmi anche poco potenti come suono in sé.
Un difetto di non poca rilevanza, che mina alla base un’opera potenzialmente buona che, così, riesce – molto stentatamente – a raggiungere la sufficienza.
Daniele “dani66” D’Adamo