Recensione: The Mystery of Time
Eterno ritorno di Avantasia: fenomenologia. Dopo aver passato mesi a comporre musica di alta qualità, in compagnia di un buon calice di vino rosso e tanta passione, intervallata da qualche capatina all’Allianz Arena per tifare il suo Bayern Monaco, Tobias Sammet si convince della validità del materiale e passa in rassegna la rubrica per fare qualche telefonata. Formato un buon cast di star si può andare in registrazione. Fuori con i(l) full-lengh. Il pubblico è felice, la critica anche, fino alla dichiarazione shock: “quest’album sarà l’ultimo del progetto Avantasia”. Tranquilli, è una bufala già sentita più volte: the story ain’t over!
Anche per questo capitolo della storia, quando sembrava tutto finito, a ben tre anni dalla doppia release di “Angel of Babylon” e “The Wicked Symphony” (2010) che chiudevano la trilogia di “The Scarecrow” (2008), il genio vulcanico del frontman degli Edguy e mastermind di Avantasia si è destato, con la notizia di un nuovo concept in due episodi ed una nuova storia da raccontare. Ed eccoci qui: “The Mystery of Time” è tra noi.
Ad un primissimo impatto colpisce la raffinatissima qualità dell’artwork, opera del celebre illustratore fantasy inglese Rodney Matthews, che ci introduce senza indugi in un mondo fantastico e fiabesco, pieno di misteri da scoprire. Peccato che l’artwork in sé non rappresenti in alcun modo la trama dell’album, ma faccia opera a sé.
Il concept narra, seppur in maniera talvolta oscura e un po’ confusa (complice anche il font illeggibile utilizzato nel booklet), le vicende del giovane scienziato Aaron Blackwell, in una piccola città inglese del periodo vittoriano. Egli vivrà il suo “romanzo di formazione”, che lo porterà dalle rigide convinzioni razionaliste logico-deduttive tipiche della sua professione all’intuizione del suo lato spirituale, attraverso l’esplorazione della coerenza del tempo e del suo uso/abuso, passando per riflessioni su Dio e sulla scienza. In quest’avventura incontrerà vari personaggi tutt’altro che in cerca di autore, “Scienza” (Joe Lynn Turner), “Ragione” (Biff Byford), un antiquario (Michael Kiske), un’apparizione femminie (Cloudy Yang), un gentiluomo (Ronnie Atkins), un mendicante (Eric Martin) ed “Epifania” (Bob Catley).
All’orchestra è affidato il compito di introdurci nella giusta atmosfera, all’inizio di “Spectres”. Il drumming è subito aggressivo; la strofa, melodica, alterna tra pianoforte e base hard rock, sfociando rapidamente nel ritornello orecchiabile in pieno stile Tobias Sammet. Colpo di genio il clavicembalo a 3/4 del brano, dopo il breve assolo di tastiera e chitarra, ed il solito pianoforte che esce in una lunghissima dissolvenza. Convincente.
“The Watchmaker’s Dream” è aperto dalla meravigliosa voce di Joe Lynn Turner (Malmsteen, Rainbow, Deep Purple) già apparso quasi in un cameo nel pezzo precedente; il brano è veloce e positivo, notevole l’assolo di chitarra di Arjen Lucassen. Ritornello semplice ma efficace. Terzo brano, dialogo (o soliloquio?) continuo tra Aaron-Tobi e la Ragione-Biff Byford (Saxon): “Black Orchid”. Mid tempo pieno di cambi di atmosfera, impreziosito sia dall’assolo di Bruce Kulick (Kiss) che dalla presenza, finalmente corposa e determinante, della Deuches Filmorchester Babelsberg.
Riparte l’orchestra, ma stavolta arriva il signor Michael Kiske (Helloween), che sfodera la sua voce da brividi e confeziona in scioltezza uno dei migliori brani proposti dall’album: “Where Clock Hands Freeze”. Qui il povero Tobias, seppur non sfigurando del tutto, sembra farsi piccolo piccolo al cospetto della prestazione del collega e connazionale.
Il controverso primo singolo dell’album è affidato ad un incontro in sogno con un’apparizione femminile, non troppo dissimile dal contenuto del videoclip, disponibile online. “Sleepwalking” è un pezzo pop senza mezzi termini, cantato da Cloudy Yang, che alcuni di voi ricorderanno per la sua presenza in “Symphony of Life” da “Angel of Babylon”, o come lead backing vocals (?!) al Wacken, nel DVD “The Flying Opera” (2011). Un brano discreto, immediatissimo e molto romantico, semplice nella struttura e leggero che dividerà di certo i fan: cavallo di troia ultra-commerciale per incentivare le vendite dell’album stile “Lost in Space” o intermezzo pop godibile nel mezzo del cammin del nostro ascolto? Ai lettori l’ardua sentenza. P.s. Si ringrazia l’assolo, sempre al posto giusto ed al momento giusto, del buon Sasha Paeth, co-produttore dell’album, che rende comunque giustizia all’ascolto.
“Savior in the Clockwork” è il primo brano che supera i dieci minuti di lunghezza, molto vario (a mio modesto avviso anche troppo, fino a perdersi) nella proposta musicale, tra orchestrazioni pompose, cori, doppia cassa, riff heavy, doppio ospite (i già citati Kiske e Byford) ed un buon ritornello… in cui il compositore-cantante si lascia sfuggire il titolo scandito in maniera non troppo dissimile da “Devil In The Belfry” di “The Scarecrow”. Finalmente un pezzo power metal classico con un riff deciso e chiaro, “Invoke the Machine”, assieme a Ronnie Atkins dei Pretty Maids, protagonista di un’ottima prova che spazia tra differenti range vocali, aggressivo e melodico, sicuro e versatile. Buono anche l’assolo incrociato Paeth-Hartmann, tipicamente power.
Seconda ballad dell’album, “What’s left of me”, con ospite il signor Eric Martin (Mr. Big) nelle vesti di un anonimo mendicante. Pezzo che starebbe bene nel bel mezzo di un qualsiasi album hard rock, ricorda nel ritornello “I don’t wanna miss a thing” degli Aerosmith, sarà per quel “I don’t wanna (fade)”… viene ora il turno di “Dweller in a dream”, brano power/speed un po’ più claudicante dei precedenti con un chorus non proprio incisivo ed un Kiske leggermente sottotono, soprattutto in confronto alla prova precedente.
A degno coronamento dell’opera, la suite finale “The Great Mystery” incanta con tutto il possibile, un sublime pandemonio dal lento all’hard rock al power metal: un’ottima ed intensa interpretazione quasi teatrale dei “tre tenori” Sammet-Byford-Catley. Interessante l’intermezzo power-orchestrale epico che mi ha ricordato le ultime produzioni dei Nightwish, composte da Tuomas Holopainen.
“The Mystery of Time” è la sintesi dei primi e dei secondi Avantasia: ne rappresenta il completamento, nel bene e nel male. Per questo il materiale finirà per suonare molto familiare a chi ha già avidamente assaporato ogni nota dei precedenti album. Peccato forse per la voce di Tobias non sempre ai livelli ai quali ci ha abituato negli anni e per il mancato utilizzo “massivo” dell’orchestra (per la prima volta presente in un album Avantasia), che finisce per aggiungere una tonalità di colore più profonda e realistica al sound, soprattutto nelle intro/outro ed in qualche breve intermezzo, senza tuttavia incidere in maniera decisiva sul risultato finale.
Va ammesso inoltre che, ad un primo ascolto, l’album non colpisce l’ascoltatore come dovrebbe. Eravamo infatti abituati a produzioni composte da numerosi filler, in particolare nell’ultimo periodo, intervallati a veri e propri “pezzi da novanta”, mentre ci troviamo oggi di fronte ad un album solido e compatto, normalizzato, privo di picchi. In questo mi ha ricordato un po’ l’ultimo concept dei Vision Divine, “Destination set to Nowhere” (2012), a mio modesto avviso colpevole dello stesso peccato: solido e maturo, privo di passi falsi quanto mancante di quei due/tre pezzi che fanno la differenza tra un ottimo album ed un vero e proprio capolavoro assoluto.
Per quanto riguarda “The Mystery of Time” possiamo senza ombra di dubbio affermare che il tutto è maggiore della somma delle parti che lo costituiscono: un album da ascoltare e riascoltare dall’inizio alla fine, per comprenderlo in tutte le sue sfumature, curate in maniera maniacale da una produzione più che impeccabile, dagli arrangiamenti alle linee vocali e strumentali, fino al meraviglioso artwork già citato ed al voluminoso booklet con la storia dettagliata del concept. Un album dalla forte carica emotiva, scritto da un autore geniale che continua a divertirsi sul pentagramma; come da egli stesso più volte dichiarato, più interessato a mostrarci il complesso panorama della sua emotività piuttosto che intenzionato cavalcare lo spirito dei tempi giusto per far contenti i fan.
Non ci rimane che restare in attesa della seconda parte del concept per venire (forse) a capo del “mistero del tempo”, purtroppo in arrivo in tempi non brevi (secondo quanto dichiarato dallo stesso Tobias, deve essere ancora scritto). Nel frattempo, il 16 aprile il carrozzone delle meraviglie targato Avantasia farà tappa a Milano per un concerto di ben tre ore, senza alcuna band di spalla e con numerosi ospiti anche dai precedenti album.
Sicuramente il miglior disco degli Avantasia più recenti, o almeno da tempi di “The Scarecrow”, “The Mystery of Time” è un viaggio filosofico, emozionante ed epico attraverso i misteri del tempo, più un’opera teatrale che un romanzo, consigliato a tutti i fan della buona musica che non ama le catalogazioni, entro ed oltre i confini di qualsivoglia rigido e circoscritto genere musicale.
Don’t leave me blind, give me one sign
Grant me just one look into the mystery behind…
Luca “Montsteen” Montini