Recensione: The Mystic Hands Of Fate
Sono fieri discendenti della tradizione tutta italica di far power metal i Perseus, quintetto esordiente che, nonostante la recente data di formazione, tradisce già buona esperienza ed una militanza di tutto rispetto all’interno della scena nazionale.
Nata dalla fusione dei progsters Hastings con i più tradizionali Defenders Of The Faith (un nome un programma per un gruppo cover dei Judas Priest), la band d’origini pugliesi manifesta, in effetti, le qualità necessarie nel riscuotere l’attenzione di un dealer di buona affidabilità e, soprattutto, utili nel confezionare un disco d’esordio che possa affacciarsi alle porte di un mercato sempre più iper competitivo ed affollato, con qualche minima speranza di farsi ascoltare.
Detto fatto: i sempre attenti Trevor e Tommy Talamanca (già membri degli storici Sadist ed abili talent scout) non hanno perso troppo tempo nell’intuire il discreto potenziale del gruppo brindisino, non certo padrone di una “scienza” perfetta nel ramo power, pur tuttavia capace di sciorinare caratteri di buon livello in termini di songwriting e dimestichezza con gli strumenti del mestiere.
Forti di un contratto con la piccola ed agguerrita Nadir Music, Christian Guzzo, Gabriele Pinto e compagni hanno potuto in tal modo dare vita a “The Mystic Hands Of Fate”, primo concept album dall’essenza ancora in parte piuttosto acerba che, tuttavia, lascia intendere un grande amore per le sonorità che da sempre costituiscono fondamento per il classico heavy metal, permettendo d’intuire più di un paragone con Iron Maiden, gli oseremmo dire “inevitabili” Judas Priest ed Helloween, mescolati a qualche parvenza hard rock ed al taglio tipicamente tricolore nel confezionare il genere che appartiene da tempo ai vari Labyrinth e Vision Divine.
Aspetto di maggior rilevanza, al di la di un profilo musicale più che dignitoso sebbene perfezionabile in alcune sezioni, è ad ogni modo quello concettuale, elemento in cui il quintetto riesce con una certa brillantezza a farsi notare particolarmente.
Molto interessante la storia base del disco, metafora di decadenza, resurrezione ed ulteriore disfatta che si prospetta – una volta tanto – come ben lungi dal definirsi dozzinale o priva di spessore. L’attenzione per le sfumature dell’animo umano nelle proprie pulsioni al confronto con la ricerca della propria realizzazione più alta ed evoluta, è senza dubbio il risvolto più convincente ed azzeccato di una release comunque gradevole anche sotto la mera prospettiva del piacere d’ascolto.
Lasciandone i dettagli alla curiosità di chi vorrà approfondire, va in ogni modo confermato come la proposta dei Perseus sia, ad oggi, certo valida, ma ancora bisognosa di migliorie al fine di poter ambire alla “major league” di settore.
Produzione non proprio brillante (un po’ troppo “secca” e piatta), songwriting spesso ancora schiavo di alcuni stereotipi tali da divenire prevedibili, ed un taglio vocale ad opera di Antonio Abate che non convince sino in fondo nelle parti acute e nella pronuncia inglese, sono le ragioni di critica più evidenti in un impianto che riesce comunque a dare pieno risalto ad un livello strumentale di buonissima caratura (molto valide le tessiture chitarristiche dei già citati Guzzo e Pinto), inanellando qualche pezzo godibile e foriero di impressioni positive.
L’opener “Over The Horizon”, la maideniana “The Island” e l’ottima ballad “I’ll Be Alone” rientrano a pieno titolo nella categoria dei brani riusciti, esempi lampanti di come i Perseus abbiano tra le mani e nelle penne, le doti necessarie nell’allestire qualcosa che, in un prossimo futuro, possa andare oltre ad un moderato – seppur meritatissimo – applauso di sincera approvazione.
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