Recensione: The Myth of the Mostrophus
Un’ora pirotecnica di progressive rock ricco di spunti quella che compone The Myth of the Mostrophus, ultimo lavoro solista di Ryo Okumoto, il tastierista iconico (e ormai sessantenne) degli Spock’s Beard. Per chi non lo conoscesse un buon biglietto da visita è il suo highlight in Snow, dal sobrio titolo “Ladies and Gentlemen, Mister Ryo Okumoto on the Keyboards”, contenuto nel secondo CD del grande concept album. I fan completisti ricorderanno il precedente Coming Through, uscito nel 2002, anno dell’apogeo delle “barbe”. Trattasi di un buon disco, sempre uscito per InsideOut, con un cast di ospiti illustri come Simon Phillips, Glenn Hughes e Neal Morse, con discrete iniezioni di blues e jazz. Questa volta, a distanza di vent’anni, gli special guest sono altri ma il livello musicale proposto è allo stesso modo appassionante, specie nella sontuosa titletrack da venti minuti che chiude il platter.
Ma andiamo con ordine.
L’album viene annunciato alcuni mesi fa e l’artwork godzilliano è dei più invitanti. Dopo aver rilasciato il primo singolo sul canale YouTube, lo hype tra i progster aumenta d’intensità e, vista la latitanza degli Spock’s Beard, l’uscita solista di Okumoto diventa in automatico l’oggetto del desiderio per ingannare con della buona musica questa torrida estate. La tracklist è corta e s’inizia con i nove minuti abbondanti dell’opener “Mirror Mirror” (titolo che ai metallari evocherà band importanti). Il sound è quello che ci aspettiamo, sentire Nick D’Virgilio alla batteria e al microfono ci riporta ai tempi di Feel Euphoria; Dave Meros al basso è una garanzia e la produzione non presenta sbavature. E Ryo? All’interno di un brano che procede incalzante e con un refrain melodico, il tastierista nipponico si prende i giusti spazi per sbizzarrirsi con i suoi sintetizzatori. Da manuale in tal senso la lunga sezione strumentale centrale, che condensa tutta la ricchezza del sound neoprog coltivato negli ultimi due decenni con le barbe.
“Turning Point” attacca con un hammond blueseggiante, vengono in mente gli Huriah Heep e gli ultimi Opeth, ma sono solo alcuni secondi, poi la traccia si apre verso lidi differenti, proponendo un 3/4 cadenzato ed evocativo grazie alla voce di Michael Sadler (Saga). Ancora meglio la successiva “The Watchmaker (Time on His Side)”, che s’avvia pian piano con sonorità anni Ottanta, ossia i synth spaziali che Okumoto va a ripescare dal decennio d’oro delle tastiere. Merita anche il ritornello con note in falsetto di Michael Whiteman (I Am the Manic Whale) e più in generale la positività che trasmette il pezzo.
“Maximum Velocity” presenta un doppio volto. Inizio in pianissimo, sembra una ballad, ma con l’avvio del terzo minuto riporta il sound su lidi più diretti e potenti con un drumwork quadrato, regalando un grande assolo di chitarra nella parte finale. Prima della suite conclusiva, “Chrysalis” è impreziosita da flauti e un refrain che vive di nostalgia grazie alla voce di Randy McStine (McStine & Minnemann, Porcupine Tree). Potrebbe essere un brano dei The Tangent, o degli IQ, ma anche dei cugini The Flower Kings.
E siamo infine giunti alla monster track (in tutti i sensi!) che dà il titolo all’album. “The Myth of the Mostrophus” rivaleggia con “Close Enough”, il magnum opus contenuto nel precedente album solista di Okumoto. All’inizio del viaggio sonoro che ci regala la suite prog. troviamo un buono scambio di strofe tra Leonard e D’Virgilio. Il nome del temuto Mostrophus compare a più riprese, scandito da un coro a metà tra numinoso e grottesco. Al quinto minuto è la volta del primo break, delicato come nella migliore tradizione Yes, poi ascoltiamo un lento crescendo con un’infinità di trovate divertenti e colorate, tra sintetizzatori, hammond, pianoforte, sorretti da linee ritmiche corpose e col giusto groove. Il pericolo della noia è scongiurato giusto a metà suite, quando ci pensa un sassofono gagliardo a risvegliare l’attenzione dell’ascoltatore che arriva senza problemi alla fine dei venti minuti della suite, merito pure di una sezione con coretto felice e una lenta coda dilatata con Leonard sugli scudi.
Si ha subito voglia di riascoltare The Myth of the Mostrophus (incluse, volendo, le bonus track “Waiting to Be Born” e “Sonny”), è un album ben congeniato, con brani solidi e accattivanti. Ritroviamo tutta la follia di Okumoto e la sua capacità di coinvolgere in modo convincente grandi artisti della scena prog. e non solo. A voi scoprire il loro apporto nella tracklist, noi abbiamo citato solo alcuni nomi, a cui aggiungiamo per onor di patria il batterista Mirko DeMaio, già in forze ai The Flower Kings.
Con il suo nuovo lavoro solista Ryo Okumoto rassicura i fan degli Spock’s Beard, in attesa del il successore di Noise Floor, e al contempo rivaleggia con i Pattern Seeking Animals che hanno dato alle stampe in primavera Only Passing Through. Entrambi ottimi album, il prog. è ancora vivo e vegeto anche negli anni Venti del nuovo millennio.