Recensione: The Nail

Di Fabio Vellata - 19 Settembre 2024 - 8:00

Molto costruito e poco spontaneo questo nuovo progetto chiamato The Nail.
Nato con la precisa volontà di dare spazio al talentuoso Girish Pradhan, promettente frontman di origini indiane, il gruppo è certamente una bella esibizione di giovani dalle grandi qualità. Tuttavia ingabbiati in un’idea di torrido heavy metal che non ha molto di innovativo o diverso dal solito.
I fratelli Efe e Reis Eroglu sono artisti dalle enormi prospettive. Efe, il più anziano dei due (21 anni, si fa per dire!), è un vero fenomeno con la chitarra. Potente, veloce, estroso e dal tocco granitico, coniuga la versatilità di Nuno Bettencourt con la robustezza di Zakk Wylde. Due nomi non certo buttati a caso…
Dal canto suo Reis, a sedici anni appena (!) si occupa di batteria, basso e chitarra ritmica come il più esperto dei veterani.
Insieme all’ugola di Pradhan, un terzetto di fuoriclasse.

Questo per dire senza timori di smentite, che il debutto dei The Nail è un disco formalmente eccelso. Sorretto da tecnica, suoni ed eclettismo, ha dalla sua anche la produzione de-luxe di papà Cenk Eroglu, artista di lunghissimo corso (lui sì, per davvero), noto soprattutto per la ampia collaborazione con il maestro Kip Winger.
Cosa manca quindi? Facile e già detto, la spontaneità. E di conseguenza l’inventiva.
Quella voglia di osare che non si rispecchia in un compito perfetto ed asettico ma assegna spunti, idee e non si arrotola su di un martellamento di note senza quartiere che alla fine diventa un po’ inane ed impersonale.

E dire che il disco partirebbe pure molto bene. Le tre canzoni iniziali, “Hit and Run“, “The Nail” e “No Time to Burn“, (non a caso i tre brani scelti per i relativi video promozionali) smentiscono l’impressione che può derivare dall’artwork, di un pastone modernista di suoni alternativi ed arrugginiti. C’è invece un ragionevole connubio tra melodie e risolutezza, amplificato in ritornelli aperti e calorosi.
È però in brani pesantucci e purtroppo noiosi che il debutto dei The Nail si perde. “Broken”, “Souls Screamer”, “Hangman’s Noose”, “Underdog”, sono pezzi che spesso menano per il semplice gusto di farlo. Ma non suscitano particolari emozioni.
La stessa “Walk the Line”, evidente retaggio di stilemi cari a Kip Winger, tenta la carta dell’armonia ipnotica, ma non riesce ad oltrepassare un pesante alone di staticità. Un esperimento che, tuttavia, può dirsi riuscito nella magniloquente “BlackOut (Popeye Sin)“, di gran lunga episodio migliore del cd per l’unione tra grandi parti strumentali, voce efficace e qualche buona idea nel movimentare un brano riuscito. Con, in aggiunta, sottili riflessi rainbowiani.

Nel dare un giudizio d’insieme, ecco insomma un album che ha grossi valori tecnici. Ma del quale non si possono tacere i numerosi momenti di stanca in cui l’attenzione va decisamente a spasso. E ci si appassiona ben poco.
Il miscuglio tra Motley Crue epoca Corabi, Black Label Society, Winger e Judas Priest regge solo per un po’.
Dopo, c’è spazio per qualche sbadiglio…

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Band: The Nail
Anno: 2024
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