Recensione: The Nature of the Beast
Come scritto sulla base di una formula consolidata, un album di Chris Impellitteri poggia su determinati canoni stilistici sin dall’alba dei tempi. Fedele ad un modo di scrivere ed interpretare la materia musicale persino encomiabile per quanto possa risultare sempre onesta e uguale a se stessa.
Regole strenuamente ancorate ad un heavy metal di stampo classico, in cui la chitarra impera e spadroneggia su tutto, eretta ad unica protagonista delle composizioni elaborate e tradotte in musica.
Il resto è, tutto sommato, contorno, orpello di arricchimento messo lì ad arte per consentire alla sei corde si assumere e detenere lo scettro di unica padrona della scena.
Detta così, la musica di Impellitteri e dei suoi compagni d’arme, potrebbe quasi apparire un pastone pallosissimo e noioso, sempre uguale, senza sussulti. Statico. Grigio e banale come un oscuro impiegato del catasto (qualora qualcuno dei suddetti impiegati dovesse malauguratamente leggere queste righe non si offenda, per carità: era solo per fare un esempio!) che, ripetitivamente, ogni giorno dell’anno compie le stesse azioni.
In realtà, in un disco di Impellitteri si possono trovare sempre spunti interessanti. Con un disco del talentuoso guitar hero americano ci si può anche divertire ed è concesso di trascorre, spesso, qualche momento piacevole. A patto, ovviamente, di non considerare “inventiva” e “innovazione”, quali elementi imprescindibili e vincolanti.
Del resto, quella mistura di heavy, speed ed hard rock che si integra con sventagliate di chitarrismo un po’ barocco e ridondante, da sempre, in qualche modo è destinata a piacere, solleticando – vuoi per la sua esuberanza, vuoi per l’abilità esecutiva necessaria nel sorreggerla – il palato di tutti quegli ascoltatori che partendo da Iron Maiden e Black Sabbath hanno sempre visto di buon occhio dischi incardinati alla tradizione ed al classicismo.
Ed è per questo che anche “The Nature of the Beast”, undicesimo studio album griffato Impellitteri, si conferma abilmente nella scia di tutto quanto prodotto sin qui, dal 1988 ad oggi, convogliando in dodici brani l’ennesima sventagliata di prepotente ed inarrestabile energia, la compatezza di un cubetto di porfido ed il retrogusto, un po’ romantico, che odora di anni ottanta. Senza scordare la voracità lirica del sempre ottimo Rob Rock (un heavy singer a prova di bomba) e la sezione ritmica dei confermati James Pulli e Jon Dette, affidabile ed incrollabile come già nel precedente “Venom”.
I pezzi riusciti, anche stavolta, emergono senza troppa difficoltà ed innervano il disco con buona costanza: “Masquerade”, “Run for your Life“, “Kill the Beast” e “Shine On” ne rappresentano le punte di diamante. Esempi fiammeggianti di speed metal in cui la chitarra ulula e deborda, martellando senza sosta in una baldoria di riff arrembanti e frenetici che tracima come un fiume in piena.
In mezzo, le avvincenti cover di “Phantoms of the Opera” e “Symptom of the Universe” (Black Sabbath), riuscito omaggio a quelle che possono essere elette – a ragion veduta – tra le fonti d’ispirazione primarie di Impellitteri e compagni.
Buoni brani? Ne abbiamo.
Produzione azzeccata? Presente.
Interpretazione vocale di altro livello? Senza dubbio.
Perizia tecnica ed esecuzione impeccabile? Nemmeno a parlarne, un mantra irrinunciabile.
Insomma, un altro buon disco made in Chris Impelliteri…