Recensione: The New Era Begins
Il bello di avere a che fare con la musica underground è l’effetto sorpresa: ogni giorno, tante nuove proposte diverse, tutte da scoprire, che spesso si dimostrano delle vere e proprie rivelazioni, sia in positivo che in negativo. E così, capita di ricevere materiale da parte di una band italiana relativamente giovane, in pratica all’esordio discografico sulla lunga distanza, accasata presso la Underground Symphony, un nome storico della scena heavy metal tricolore che più classico non si può. E qui, prima sorpresa, con i Burning Rome, nonostante il nome, non si ha a che fare con centurioni, draghi o metal epico in generale, ma con una proposta decisamente moderna e aggiornata in base alle ultime tendenze.
Il quintetto torinese si presenta ottimamente, con un artwork curato e affascinante, tutto da guardare. Dal punto di vista musicale, siamo in un ambito che parte dal gothic metal più muscolare degli anni ’90 (Sentenced, Type O Negative, Paradise Lost del periodo One Second) e si sviluppa verso territori più sintetici, modernisti e in un certo senso più rock, senza perdere assolutamente in genuinità. The New Era Begins, questo il titolo del lavoro, dopo la intro In Hoc Signo Vinces, parte in quarta con Silence And Me, pezzo dinamico ed orecchiabile che mette subito in buona luce il songwriting del quintetto sabaudo: il riffing è decisamente attuale, pesante senza essere ossessivo e la ricerca del ritornello vincente è fatta con cura. Nella successiva Lonely Boy vengono fuori rimandi a Deftones in quanto a feeling ed intensità dei breakdown, pur se in un contesto decisamente ritmato e, se vogliamo, più agile; ancora una volta l’accorato cantato di Beppe Careddu accompagna attraverso un chorus ben riuscito. A livello musicale, si nota la centralità delle ritmiche a scapito dei solismi, un po’ come ci hanno abituato i Lacuna Coil per lunga parte della loro carriera. Le due chitarre infatti fanno “muro” insieme in buona parte dei pezzi (specialmente nella prima metà del cd) ed evitano eccesive digressioni individuali: scelta che può piacere o meno, in ogni caso i Burning Rome sembrano saperlo fare con una certa consapevolezza. Proseguendo nella tracklist, non si può non notare quella che pare essere la conditio-sine-qua-non dei pezzi dei Burning Rome: da una parte la ricerca della migliore linea melodica, dall’altra la robustezza della base ritmica; due pezzi come Never Never e The Art Of Bleeding sono sostanzialmente simili, con il loro sottofondo fatto di palm muting che lascia volentieri spazio ad un sentito refrain. In tale contesto, Into Shadows rappresenta sostanzialmente un’eccezione, un piacevole intermezzo, in quanto già la successiva e monolitica Who Do You Think We Are, con il suo testo così stringato ed essenziale, ripetuto allo stremo, perde completamente tutte le variazioni sul tema del pezzo precedente. Bella, anche se il debito nei confronti dei System Of A Down è abbastanza palese, The Same Old Story: convincono in modo particolare le linee vocali doppiate e gli arrangiamenti ben lavorati. Finalmente, in evidenza, un bell’assolo di chitarra, su cui forse si poteva lavorare meglio a livello di mix. Ci si avvia verso la conclusione del lavoro e la qualità non viene meno; con Gravity ci si riavvicina alla forma pù canonica strofa-refrain e assolo, mentre con This Is The Place si affronta un chiaroscuro musicale fatto di toni più oscuri e rallentati che contrastano bene con ripartenze più energiche.
Una band che sa già il fatto suo, questi Burning Rome. Le idee ci sono e sembrano essere chiare, l’amalgama c’è tutto ed è base portante di un disco ben costruito. Sanno essere moderni senza risultare asettici. Benché la pedissequa imitazione di chicchessia sembra certamente evitata, è da ritenere che ci sia ancora spazio per guadagnare in personalità. In ogni caso, promossi e avanti così.
Vittorio Cafiero