Recensione: The Ninth Hour
Dopo le recenti e sonore débâcle di alcune band che, a loro tempo, hanno fatto la Storia del nostro amato heavy metal, qualunque metallaro, attempato o meno, molto probabilmente avrà fatto le proprie riflessioni e tratto le conclusioni personali. Il ragionamento, molto ampio e complesso, difficilmente può essere applicabile a ciascun singolo caso (diciamo, universale) e non può comunque prescindere da quelli che sono i propri gusti e l’esperienza maturata. Di fronte a release sottotono, deludenti o totalmente disastrose è difficile mantenere un certo distacco e dare giudizi equilibrati, si passa magari da una stroncatura senza appello, condita da qualche frase colorita, fino ad arrivare alle più grottesche esaltazioni in nome di una genialità e innovazione artistica che solo certi critici musicali riescono a percepire –in virtù forse di qualche dote evidentemente sconosciuta ai più. Cercando però di non cedere alle facili tentazioni della critica spietata, da fan, spesso si tende a trovare ogni genere di spiegazione plausibile per l’infelice album di turno e a salvare il salvabile. D’altronde quando si parla di gruppi dalla carriera pluridecennale o artisti che hanno militato in miriadi di band, si può sempre (o quasi) trovare una fase di calo d’ispirazione, è fisiologico. Non possiamo fare finta che per loro il tempo non sia passato (con tutto quello che ne consegue) e, ancora, sebbene non siano più nel loro periodo di massimo splendore, paragonati alle tante ciofeche che escono oggigiorno, sono pur sempre dei compositori di tutto rispetto. Tutti discorsi che hanno un certo fondamento, ma è sempre e comunque l’età e il vil denaro a determinare la qualità della musica di un gruppo? E allora, quando capita d’imbattersi in musicisti che, indipendentemente dai dati anagrafici, dalla moda del momento o dal grado di fama o di ricchezza raggiunta, continuano imperterriti a sfornare full-length dal valore mediamente alto, come dovremmo giudicarli?
Come nel caso dell’inossidabile Joe Hasselvander, il quale, dopo una carriera invidiabile e l’indiscutibile successo dell’ottimo “Walk Through Fire” (Raven, 2009), si ripresenta in grande stile accompagnato dai suoi ‘Mastini’ con il nuovissimo “The Ninth Hour”. Un album che non suona minimamente anacronistico o stantio, sebbene faccia fare un balzo indietro nel tempo fino agli albori del doom: quello legato al pesante hard rock (o proto-heavy) di fine anni sessanta/primi settanta dei Blue Cheer, per fare un nome su tutti o quello oscuro ed esoterico dei maestri Black Sabbath. Un genere che invero non ha mai raccolto quanto gli sarebbe spettato, se non in rare occasioni e che forse ha ancora molto da dire, nonostante l’arduo compito di riuscire a non riproporre i soliti stilemi e i vari cliché triti e ritriti. Forse, proprio chi è avvezzo da lungo corso a questo genere di sonorità e che ne ha scritto pagine fondamentali, è in grado di farcela -senza nulla togliere però a tutti quei gruppi giovani e promettenti venuti fuori negli ultimi anni. È indiscutibile, infatti, che il gene del doom (e dell’HM in generale) sia profondamente radicato nel DNA di Mr. Hasselvander e che, a questo genere, il buon Joe abbia dedicato la propria esistenza, con cuore e tanto sudore. Sicuramente questo è quello che ha pensato la nostrana Black Widow Records, decidendo di scommettere su questo progetto e risulta evidente sin dalle prime note della title-track, posta in apertura. Un lugubre brano che supera abbondantemente i dieci minuti di durata che è, in un certo senso, la summa di tutto ciò che significa suonare, vivere e respirare ‘doom’. Voce ‘sgraziata’ che rimanda al ‘madman’ dei primi Black Sabbath o alle clean vocals di un certo Lee Dorrian, riff cupi, paludosi e soprattutto lenti e ossessivi. Niente di nuovo, è vero, ma fatto in maniera dannatamente coinvolgente: inutile provare a fare resistenza, finirete inevitabilmente risucchiati dalle più profonde sabbie mobili. Quasi epica poi la parte finale, degna dei più solenni passaggi dei texani Solitude Aeturnus. Decisamente più brevi e dinamiche “Heavier Than Thou” e la cattivissima “Suburban Witch”, nelle quali, oltre a esibire un rifferama di prim’ordine sulla falsariga di quanto proposto con i Pentagram di “Review Your Choices” e “Sub-Basement” e un timbro vocale degno del miglior ‘Wino’, il Nostro dà libero sfogo alla sua caratteristica e riconoscibile spinta propulsiva dietro alle pelli. Si passa poi alla plumbea ballata “Restless Soul” dall’incedere funereo di ‘osbourniana’ memoria, prima della sorprendente cover di “Don’t Look Around” dei mitici Mountain. “Salem” è il brano più particolare dell’album, sonorità dilatate e un’atmosfera che può inizialmente ricordare la melodia portante della splendida “Womb Of The Worm” degli Skyclad, ma poi prosegue in chiave decisamente più easy e settantiana. La chiusura è affidata alla maestosa “Coming Of The King” tra qualche richiamo ai Pentagram e, per merito del valido contributo di Paolo Negri alle tastiere, ai primi Spiritual Beggars. Da scapocciamento forsennato il devastante crescendo posto circa a metà canzone e ottimo il finale dilatato.
Che altro aggiungere? Grandissimo ritorno per un decano della musica pesante come Joe Hasselvander. Una piena dimostrazione che dopo tanti anni di onorata carriera si può ancora comporre della musica di alto livello: basta volerlo! Se siete amanti del doom e della buona musica in generale, non pensateci troppo e fate vostro “The Ninth Hour”!
Orso “Orso80” Comellini
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Tracce:
1. The Ninth Hour 12:10
2. Heavier Than Thou 4:58
3. Suburban Witch 4:02
4. Restless Soul 10:22
5. Don’t Look Around 4:13
6. Salem 7:50
7. Coming Of The King 8:43
Durata 52 min. ca.
Formazione:
Joe Hasselvander – Vocals, Guitar, Drums
Martin Swaney – Bass
Paolo “Apollo” Negri – Keyboards
Eric “Orion” Cabana – Bass on “Heavier Than Thou” & “Don’t Look Around”