Recensione: The Ninth Hour
What if we could somehow
Store knowledge in a cloud
Draw a smiling face on the moon
Find the meaning of life
C’era una volta una band esordiente con il suo primo full-length a fine millennio che seppe stupire le scene power metal. Dalla fredda e magica Finlandia regalò altri tre buoni album, poi per il rischio di un’involuzione stilistica decise in un cambio di rotta… e dal 2007 qualcosa si è perso inevitabilmente. The Days of Grays e Stones Grow Her Name restano due album discreti, Pariah’s Child e l’anniversary edition di Ecliptica due passi falsi invece.
Con The Ninth Hour, album che nel titolo celebra la quasi doppia cifra dei finnici in studio e richiama, altresì, la mors Christi – a fronte, però, di un fil rouge panteista più che escatologico – i nostri non riescono nel miracolo di riproporsi sui livelli di grazia degli esordi. La tematica del rapporto Uomo-animale oggi è attualissima, si parla, con un lessico specialistico, di animot, earthling e antispecismo. In questo caso i Sonata Arctica eleggono il logo del lupo selvaggio a simbolo di un’ipotetica età dell’oro che riconduca l’essere umano a un contatto più partecipe con la natura, sappiamo quanto questo leitmotiv sia caro a scandinavi e finnici.
Così Tony Kakko e Henrik Klingenberg spiegano l’artwork:
The idea I had was, that turning the knob will tilt the hour glass in one direction or another, and the other cup will slowly empty and that future will be erased. Biblically we are expected to repent and sacrifice on The Ninth Hour… to dive right back to a more mundane reality, it’s a fact that we are currently living in critical, historical times. Our decisions will define the future. Not only ours as a race, but the future of this entire planet. We need to make sacrifices and in many cases we will repent our already made choices.”
Avevo un’idea, per cui ruotando la manopola si inclina la clessidra, in un senso o nell’altro, e l’altra coppa lentamente si svuota e il futuro verrà cancellato. Biblicamente da noi ci aspetta che dovremo pentirci ed essere sottoposti a un sacrificio alla nona ora … per rituffarci in una realtà più mondana, è un dato di fatto che stiamo vivendo in tempi storici critici. Le nostre decisioni definiranno il futuro. Non solo il nostro come fosse una gara contro il tempo, ma il futuro di questo intero pianeta. Abbiamo bisogno di fare sacrifici e in molti casi ci dovremo pentire delle scelte che abbiamo già compiuto.
Sacrificio, inesorabilità, futuro, un filone ampiamente percorso nei testi metal dell’ultimo decennio, tutto, però, ha il sapore delle latitudini nordeuropee. A partire dal trattamento delle tastiere, primo strumento ad aprire “Closer to an animal”, seguite da una linea di basso gagliarda, dalle asprezze della 6-corde e dalla batteria del solito Portimo. Un opener discreto, che si salva per l’accostamento tra tasti d’avorio e power chord.
Buone le melodie di “Life”, ma i la-la-la-la di Kakko nel refrain sono troppo stucchevoli, davvero una scelta di cattivo gusto. Convince a metà la seguente “Fairytale”, un filo più decisa, ma prevedibile nei suoi sei minuti abbondanti di sviluppo.
Prima ballad in scaletta, “We Are What We Are” non bissa i fasti emotivi di una “Replica”, ammalia con gl’inserti di fiati, delude per le linee vocali del ritornello. Più ecletticità in “Till Death’s Done Us Apart”, un pezzo falotico, dai tratti burtoniani, ben rappresentativo della nuova identità sonora dei Sonata Arctica. Sfumature tragiche in “Among the Shooting Stars”: inizio fatato “There was a boy, there was a girl there was a night…”, poi, in pochi secondi tutto si volge al peggio (“there was a scream there’s was a bite!”). Il resto del brano non regala sussulti, il solo Kakko tenta di salvare la situazione con il suo istrionismo.
Un difetto del platter è la mancanza di una vera killer song. Se nel passato recente avevano canzoni come “Flag in the ground”, “Cinderblox” o “The wolves die young”, questa volta la coppia “Rise at night”-“Fly navigate communicate” non riesce a restare impressa nella mente più di tanto. C’è il clavicembalo, la doppia cassa, i power chord, ma tutto sa di derivativo, meglio i Serious Black a questo punto! Si rivela, comunque, un filo più longeva “Fly navigate communicate”, sia per un titolo imprevedibile, sia per un refrain che nelle sue due velocità (e tanto di synth di organo) fa chiudere un occhio sulla carenza di idee innovative. Passabile la ballad “Candle Lawns”, niente meno e niente più di una pausa prima della suite finale “White Pearl, Black Oceans, Part II”, che continua la composizione presente nel finire di Reckoning Night del 2004 (un bel pezzo da quasi nove minuti che inizia con garriti di gabbiani e termina con un solenne Amen). Forse uno dei momenti più alti del disco, a detta anche dei compositori. Consigliato l’ascolto continuativo di entrambe le tracce, a comporre una narrazione di vasto respiro. Come epilogo abbiamo “On the Faultline (Closure to an Animal)”, un brano lisergico per un pubblico certo non di teenager.
Questa la tracklist, cosa rimane dall’ascolto del platter? Pochi sussulti, poche certezze. I Sonata Arctica restano una band con una sua originalità, la voce di Kakko è inimitabile, però manca l’ottimismo che fu parte imprescindibile nel sound dei finlandesi. The ninth hour trasuda troppa malinconia (non che in passato fosse assente), scelta voluta dalla band, complice i temi di fondo delle liriche, ma che poco si addice all’identità scanzonata dal gruppo. La produzione, inoltre, è troppo satura e appiattisce i vari strumenti. Da ultimo i debiti nei confronti dei connazionali sono evidenti.
Il manierismo maturato nel tempo dai nuovi Sonata Arctica salva l’album dalla mediocrità, però non annovereremo certamente questo album tra le migliori uscite di questo 2016. Auguriamo un felice show con i Twlight Force il 20 ottobre, all’Alcatraz di Milano. Entrambe le band questa volta non hanno stupito, ma sul palco possono ancora strappare qualche facile entusiasmo.