Recensione: The Ocean At The End
Il roaster InsideOut si arricchisce dell’ennesimo nome importante, pubblicando in Europa (dove l’etichetta Anthem Entertainment non è potuta arrivare) l’ottavo album in studio dei The Tea Party, band canadese famosissima in patria e dal vissuto illustre. Nella loro carriera quasi venticinquennale, e dopo una recente e miracolosa reunion che ha rotto un silenzio creativo di dieci anni, il gruppo nordamericano continua a stupire con l’eclettismo che li contraddistingue, proponendo un platter registrato vagando per il mondo. Basti la copertina, che pare rubata da un Hieronymus Bosch post-surrealista e fa dell’horror vacui proggish la sua cifra stilistica, per dare un’idea dell’estro messo in campo. Detto questo, è d’obbligo una precisazione: l’etichetta di AOR band va presa con le dovute accortezze: i tre canadesi non sono inquadrabili con facilità in alcun genere musicale rigoroso.
Ancora una volta il produttore è l’istrionico mastermind Jeff Martin, autore di una prova sopraffina, non solo al microfono. Al mix troviamo, invece, David Bottrill (vincitore di un Grammy e che ha lavorato con band come Rush, Muse, Peter Gabriel e Tool).
The Ocean At The End oltre a segnare una rinascita è, a detta di Martin, «a testament to the strength of the music that we’ve created in the past and a testament to the friendship that exists between the three of us» (la prova della forza musicale che abbiamo creato in passato e una prova all’amicizia che esiste tra noi tre).
Se l’attesa per il nuovo album è alta, l’avvio di disco è spigliato e scanzonato. “The L.O.C” parte con accordi semiacustici, basso gagliardo e un ritmo vellicante nel suo incedere a scatti. La voce di Jeff Martin è calda e avvolgente, dona un’incredibile personalità al sound dei canadesi. Sul finire del secondo minuto le atmosfere si incupiscono per pochi istanti, ma la musica proposta resta al limite tra AOR e un progressive diretto e poco pretenzioso al contempo. La seconda parte del brano presenta momenti lisergici e una ripartenza spigolosa, con in nuce gli spettri araboidi che ritroveremo nel prosieguo del platter.
Più cattiva “The Black Sea”, che attacca quasi su lidi metal, da far invidia a un band come i Bigelf. I The Tea Party suonano vintage, ma con la giusta modernità e ci conducono nei flutti di un mare nero, rischiarato da melodie solari, che ben si sposano, per giusto contrasto, con le tinte latamente disturbanti della traccia. Il drumwork è minimale, ma efficace; l’affiatamento del gruppo mirabile. Spiccano alcune contaminazioni stoner rock e alcuni inserti etnici: l’oceano è ancora all’inizio, ma già rivela le sue meraviglie…
Evocativo intro space rock per “Cypher”, brano atipico con un avvio in crescendo e tanto Oriente (forse in questo caso ha senso parlare di “Moroccon roll”). Tra gl’indiscussi highlight del full-length, troviamo “The Maker”, scritta e composta da – udite, udite! – Daniel Lanois e Brian Eno. Si tratta di un brano fugace dalle tinte vellutate, con protagoniste linee di basso e un’empatia infinita. Nel finale di brano c’è spazio anche per un buon assolo della 6-corde.
Chitarra acustica e hammond, invece, per la ballad da cantare senza soluzione di continuità, “Black Roses” (il nero è tra i colori cardine del disco). Minuti edificanti e sollazzevoli che vorremmo non finissero mai, con un refrain dai controcanti corali e i glissati impagabili di Jeff Martin. Ultimi secondi più AOR che non si può: i The Tea Party sono gli eredi meritori dei grandi Uriah Heep.
“Brazil” è un altro brano che sostanzia l’eclettismo dei canadesi. Inserti di musica da strada con percussioni in primo piano (in una sorta di batucada dettata dai poliritmi di Aline Morales) e un main riff facile facile ma incredibilmente gustoso. “The 11th Hour” inizia con note viperine di esraj (strumento d’origini indiane), poi ritorna il rock gagliardo dei nordamericani. Palm-mute e un refrain ancora una volta azzeccato, basta poco a Jeff Martin per creare un altro pezzo con un suo quid e un finale tirato.
“Submission” incede con synth inquietanti e pacchiani, non mancano, inoltre, campane campionate. Niente chitarre, spazio a sua maestà l’elettronica. Dopo tale sconquasso, la brevissima ed elvisiana “The Cass Corridor” è un refrigerio non manco d’ilarità: un divertissement forse effimero, ma decisamente gradito. Avvio atmosferico e in pianissimo per “Water’s On Fire”, traccia dal titolo ossimorico, con un tiro emozionale invidiabile; il ritornello, poi, è una delizia di AOR allo stato puro.
Nei primi secondi della lunga e mesta titletrack echeggiano garriti di gabbiani. L’assolo chitarristico a metà brano sa di fluido rosa ed è tra i momenti migliori del platter. Sul finire del sesto minuto una sequenza ancora space metal e il brano resta come sospeso, con in sottofondo note magiche di un certo signor Jethro Tull. Martin recita testi toccanti («My love is a postcard that I send… It’s from the ocean…»), poi finalmente s’intravede un approdo consolatorio su ritmi dilatati e nostalgici.
L’album è in sè terminato: la criptica ghost track “Into the Unknown”, brano drone che stona col resto del platter, regala tutt’al più un’atmosfera claustrofobica e spettrale, che si può skippare o meno.
Un simile viaggio sonoro merita tutti i plausi che giustamente gli spettano. I The Tea Party sono tornati più in forma che mai, per la gioia di vecchi e nuovi fan, che magari hanno conosciuto la band canadese grazie al contratto con la label tedesca citata in apertura. Un disco d’avere e riascoltare sino allo sfinimento.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)