Recensione: The Outcast Hall of Fame
Ritorno sulle scene per i danesi Evil Masquerade, band solitamente dedita a un power metal neoclassico dalla forte componente teatrale, debitrice dei connazionali Royal Hunt. Nei dodici anni di carriera fin qui trascorsi, con buoni dischi all’attiva tuttavia senza mai raggiungere il grande pubblico, di cambiamenti ce ne sono stati molti; diversi sconvolgimenti della line-up, qualche tentativo di snellire la proposta inserendo nelle ultime uscite elementi hard rock riconducibili addirittura ai Rainbow, finché il leader Henry Flyman si è ritrovato a ripartire quasi da zero.
The Outcast Hall Of Fame è una auto-produzione, uscita per la label della band Dark Minstrel Music, per soli otto pezzi, con la scelta (da me apprezzata) di coinvolgere quattro cantanti ad alternarsi dietro il microfono. Ci sono il dio greco Apollo Papathanasio (Spiritual Beggars, ex Firewind), già voce della band per tre album, il troppo sottovalutato Rick Altzi (Masterplan), il veterano Mats Leven (ex Malmsteen e Therion tra i tanti, attualmente nei Candlemass) e il poco conosciuto Niklas Sonne (Defecto), scelto subito dopo l’uscita del disco come singer ufficiale. Un pugno di cantanti dalle voci non troppo lontane tra loro e che riesce a completarsi l’un con l’altro, garantendo quindi una certa uniformità al prodotto.
La partenza è affidata direttamente alla titletrack. Un riff ruvido introduce un pezzo diretto dove Apollo Papathanasio irrompe subito sulla scena, regalando una prestazione decisa con la sua voce calda, in grado di imporsi sia nelle strofe aggressive che nel refrain più melodico. L’inizio dunque ci rivela degli Evil Masquerade diversi, più duri, senza fronzoli: chitarra pesante con accenni di distorsione, batteria pompata in fase di produzione che regala colpi di doppia cassa, tastiere messe in secondo piano, lì dove invece erano una delle caratteristiche principali dello stile perseguito per tutta la carriera. Questa nuova impostazione è confermata dalla successiva “Death Of God”, altra traccia spedita e dritta al punto, stavolta con Rick Altzi al microfono, singer come detto sottovalutato: voce potente, aggressiva, vicina come stile a quel mostro chiamato Jorn Lande (non a caso Roland Grapow lo ha voluto nei suoi Masterplan proprio come sostituto del norvegese). E “Death Of God” risulta essere un bel pezzo di power moderno che merita più di un ascolto.
Terza traccia, “Darkness (I Need You)”, e troviamo un Mats Leven in grande spolvero, ma anche nel suo caso non c’è da stupirsi della qualità offerta essendo tra i migliori in circolazione. Traccia leggermente più articolata delle precedenti, ritornello oscuro, una lieve sensazione orientaleggiante inserita prima del buon assolo.
“One Thousand Roses And A Lot Of Pain” è la ballad del disco, una traccia breve ma intensa che spezza l’aggressività del trittico iniziale. Di nuovo Rick Altzi, che si produce in un’altra prestazione di alto livello, molto “Landeiano” in questo frangente, ma funziona. Vista la qualità il pezzo meritava un minutaggio più ampio.
Si riparte spediti con “Lost Inside A World Of Fear”, così possiamo saggiare le doti del meno noto Niklas Sonne. La sua voce è praticamente un compendio di chi l’ha preceduto, e contiene la ruvidezza di Altzi, il calore melodico di Apollo, gli acuti “acidi” di Leven. E la song funziona che è un piacere, rappresentando forse il punto più alto del disco. Sonne fa il bis con il mid-tempo The Spineless, dove ritroviamo i vecchi Evil Masquerade dall’andatura teatrale, drammatica e bizzarra. Sonne se la cava bene, quindi risulta un’ottima scelta come nuovo frontman.
Il capo squadra Flyman si ritaglia un momento tutto suo, sfoderando una voce niente male in “Märk Hur Vår Skugga”, pezzo popolare danese scritto da Carl Michael Bellman (1740 – 1795) e rivisitato in chiave metal. Il danese non è certo una lingua delicata, anzi, ma la resa è superba, grazie a un afflato epico unito a un tocco di malinconia nordica, che rende anche questa traccia un gioiellino da ascoltare più volte. Chiude il lavoro la lunga suite On No Way To Broadway, divisa in più movimenti, dove si radunano tutte le voci fin qui sentite a dividersi le strofe. Forse le varie parti non sono ben collegate tra loro, dando l’impressione di essere spezzoni di canzoni messe forzatamente insieme da alcuni passaggi strumentali d’atmosfera. L’interpretazione però fa la differenza, e la coda che sfuma in un coro oscuro è suggestiva abbastanza per lasciare il segno e la voglia di far ripartire il cd.
In poco meno di quaranta minuti, gli Evil Masquerade si ripropongono con un album efficace, piacevole, non un capolavoro (non ne hanno mai fatti e probabilmente mai ne faranno) ma un ascolto power metal da provare. Henry Flyman è un buon compositore, sa come scrivere canzoni accattivanti con belle melodie, e la nuova veste della band, più ruvida e meno pomposa del passato, può aprire loro una seconda parte di carriera interessante. Sempre “Outcast” e in seconda linea, ovvio.