Recensione: The Path
Sesto disco in carriera per i Fit For A King, autori di una carriera, appunto, le cui uscite paiono essere state scandite da un metronomo. Una regolarità produttiva che non trova poi così tanti riscontri, in giro, e che, in un certo senso, nobilita la formazione americana in ordine a una sana professionalità, sicuramente al top per quanto riguarda il metalcore.
Metalcore americano, quindi, a permeare le dieci canzoni dieci che compongono “The Path”, mediamente lunghe sui tre minuti e mezzo / quattro. Anche in questo caso sintomo di idee solidamente basate su parametri ideati apposta per dare un senso di rigore formale e di regolarità al tutto, ingabbiato entro limiti di sicurezza che, di conseguenza, tagliano alla base la voglia di compiere voli pindarici.
Il che non significa che ci si debba trovare necessariamente di fronte a un qualcosa di finto, precostituito, elaborato per rientrare quanto più possibile negli usi e costumi della massa.
E infatti il combo di Tyler sciorina la propria musica con una tecnica strumentale eccezionale ma, soprattutto, con una classe che non si trova tutti i giorni. Il sound in effetti non è originalissimo ma è davvero perfetto, duro, tagliente, gustosamente esorbitante nella sua potenza (‘Vendetta’). Un muraglione che fa da confine fra i territori dei chiunque da quello degli eccellenti. Ed eccellenti i Fit For A King lo sono indiscutibilmente. Non solo per la loro bravura in sala di registrazione, bensì per una classe – è bene ripeterlo – compositiva assestata ai massimi livelli attuali della tipologia musicale di cui trattasi. Il metalcore statunitense è diverso da quello europeo. Più cattivo, più aggressivo, più… metal. Tuttavia, il gruppo riesce a miscelare con grande perizia i due aspetti classici del metalcore stesso: la riottosità e la melodiosità. Durezza e morbidezza assieme, insomma, sì da creare un ossimoro nel senso più vero del termine.
I vari brani sono costruiti mediante delle membrature d’acciaio, massicce nelle loro dimensioni tridimensionali. Come una specie di mazza che si abbatte senza pietà sugli incauti ascoltatori (‘Annihiliation’). Nello stesso tempo, però, su dette membrature vengono installate delle preziose sovrastrutture dal grande pregio estetico. Mutuando un po’ le forme di un moderno grattacielo: forte dentro, splendente fuori. Splendente come tutti i ritornelli che segnano le tracce. Mai banali, mai stucchevoli, mai sdolcinati ma deliziosamente orecchiabili.
Non a caso i due chitarristi, Bobby Lynge e Daniel Gailey, realizzano solite pareti con riff quadrati, thrashy, forgiati con la tecnica del palm-muting, a mò di mattoni. Pareti abbellite dai delicati e splendenti fregi delle divagazioni solistiche. La possente sezione ritmica non fa prigionieri, come si suol dire, nel suo incedere inarrestabile, ricchissimi di cambi di tempo, le cui battute sono come mazzate nella schiena che vanno dagli immancabili, terribili stop’n’go (‘God of Fire’) sino ai rapidi e micidiali, quanto trascinanti, quattro quarti à la Slipknot (‘Stockholm’). Ottimi e centrate le campionature (incipit di ‘The Face of Hate’, ‘Prophet’), atte a rendere ancora più spesso e profondo, se possibile, un suono assolutamente da non perdere.
La punta dell’iceberg, e ciò quel che si vede maggiormente, è costituita da Ryan Kirby e Ryan “Tuck” O’Leary, cantanti – il secondo anche bassista – che, assieme, realizzano un altro ossimoro: quello fra le più acide e corrosive harsh vocals e la voce pulita. Ryan Kirby è il nocchiero che dirige la band a stelle e strisce con la sua forte personalità, che si estrinseca in un perenne tono imperioso, seppur rifinito con la carta di vetro a lana grossa. Ottimi, come da tradizione, i cori (‘Locked In My Head’), che donano al sound quel leggero tocco di struggente melanconia.
In definitiva “The Path” è un LP adulto nel suo essere… metalcoresco, e i Fit For A King sono una di quelle realtà da conservare e supportare, giacché ambasciatrice di un intero genere.
Il metalcore.
Daniele “dani66” D’Adamo