Recensione: The Perfect Element Pt.1
Il progressive, quello vero, si è sempre liberato dagli stenti della politica o dalle catene del pragmatismo; ha sempre provato a raccontare i “fatti” con un’ambientazione alternativa: sia questa un visionario scenario futuristico dipinto con le suggestioni dell’estetica, sia questa un pianeta normalissimo visto con gli occhi dell’arte.
Proprio per questo motivo, il genere si è sempre caratterizzato con il culto della forma, peculiarità che ha dato adito a miriadi accuse di freddezza.
A mio parere queste insinuazioni sono immotivate, perché credo che la sostanza sia una percezione soggettiva; però questo marchio è sopravvissuto nel tempo, trascinandosi fino ai giorni nostri, dando la possibilità ai critici più “crudeli” di bocciare straordinari gruppi usando come scusa la “mancanza del vero sentire”.
Con il battesimo del Metal il prog. si è rigenerato a livello di vendita e di commercio, ma a livello strutturale e tematico ha seguito solamente dei sentieri già battuti dalle esperienze Prog Rock passate. Oggi ho il piacere di parlarvi di un gruppo che è riuscito a regalare a questo straordinario ambiente alcune importanti innovazioni, novità che hanno senza dubbio un incipit antico, rivoluzionate, però, da un incastro melodico e lirico martellante e contraddittorio.The Perfect Element è il terzo album per Daniel Gildenlow e soci, precisamente la prima parte di un concept che ha come tema l’infanzia, la pubertà e lo studio psicologico di come le vicissitudini giovanili possano incidere sulla formazione emotiva di una persona.
Nella storia della musica di frequente ci siamo imbattuti in lavori che analizzano l’intimismo delle donne, esasperando l’emozione come unica chiave di lettura dell’esistenza; proprio in questo la band svedese ha trovato la sua prima originalità, mettendo questa volta un uomo nella situazione di avere delle sensazioni dolorose, un ragazzo che reagisce a delle tragedie come la molestia sessuale tanto con l’aggressività e la rabbia, quanto con un incartamento in se stesso denso di dolcezza ed amarezza.
Le liriche hanno sempre una formazione tipica del monologo interiore, spesso ci sono dei sentieri vocali obliqui, dove ai sospiri più leggeri si contrappone una rivalsa furente: In Used, per esempio, possiamo trovare dei passaggi dove la voce sembra appena soffiata, con un parlato solo leggermente sospirato, altri dove “rappa” violentemente in forte rottura con la melodia.
Tutto questo groviglio riesce a far apprezzare ancora di più il cantato, che generalmente ci precipita nelle orecchie nei momenti di maggiore enfasi.
Lo stesso ossimoro delle linee vocali (forza-timidezza; sicurezza-paura) è ancor meglio amplificato dalla vera e propria struttura melodica; la sezione ritmica è variegata ed accattivante, ma con meno accorgimenti in controtempo rispetto agli altri lavori griffati Pain Of Salvation; questa mancanza è però sostituita da una composizione capricciosa, imprendibile: incredibile come non ci sia mai una colonna portante tra le parti musicali, in ogni track i ragazzi svedesi si scambiano di continuo il ruolo di primadonna, disorientando con dei collegamenti coraggiosi ed esaltando con delle uscite spiazzanti, alla fine di ogni canzone però il messaggio risulta paradossalmente chiaro e nitido.
Questa forma complessa che riesce, comunque, a comunicare con efficacia, incarna alla perfezione il fine del progressive: infatti, il rifiuto programmatico della “forma canzone”, il rifiuto della riduzione delle forme espressive del rock nell’ambito della rigidità strutturale e del ritornello come fulcro dell’invenzione musicale, deve sempre coesistere con un senso musicale; in parole povere non può essere uno sterile e virtuosistico sfoggio di tecnica.
Ho il personalissimo parere che nessuna band è riuscita ad eguagliare il mito di certe formazioni immortali nate nei seventies, che hanno saputo interpretare questo modello musicale con un estro ed una genialità immortale; d’altra parte sono sempre rimasto deluso da certi “mancati” tentativi di buttare altra legna al fuoco, molti gruppi odierni si sono limitati a copiare un cliché passato senza il desiderio o la presunzione di dire qualcosa di nuovo, avendo come unico innesto innovativo una maggiore orecchiabilità, qualità che non considero sempre positiva.
I Pain Of Salvation ci hanno provato, mantenendo fede alle coordinate storiche (la mancanza di un ritornello, sostituito da degli spezzoni ripetuti, concentrici ed eguali di importanza all’interno della song è una pratica antica sperimentata con successo da Band come Rush o Yes), ma tentando di riorganizzare il tutto con qualche spunto emotivo, sonoro, architettonico.
Da comprare ad occhi chiusi, aspettando la seconda parte.
TrackList
01. Used
02. In The Flesh
03. Ashes
04. Morning On Earth
05. Idioglossia
06. Her Voices
07. Dedication
08. King Of Loss
09. Reconcilation
10. Song For The Innocent
11. Falling
12. The Perfect Element