Recensione: The Plague Within
I Paradise Lost sono una band che non ha sicuramente bisogno di presentazioni, i Paradise Lost sono i Paradise Lost, punto e basta. Una band capace di scrivere pagine importanti ed immortali nella storia della musica a noi cara. Nick Holmes e soci si sono letteralmente inventati nei primi anni novanta, creando un sound estremamente personale, diventando un punto di riferimento per molte formazioni a venire. Dopo aver raggiunto il proprio apice compositivo con Draconian Times (perlomeno per chi scrive queste righe), sul finire di quella decade i ‘Lost decidocno di rivoluzionare il proprio sound inserendo elementi elettronici con chiari riferimenti ai Depeche Mode, sfornando, in particolare, due dischi di valore come One Second e Host. Passata la voglia di sperimentare, la band di Halifax riscopre il proprio passato a partire dal 2005, riportando alla luce quelle sonorità che l’avevano resa unica, inanellando quattro dischi di qualità eccelsa in cui l’ombra di Draconian Times fa spesso capolino. Inevitabilmente c’è chi ha visto in questo ritorno al passato una mossa commerciale e poco sincera, ma quando “una mossa commerciale e poco sincera” riesce a dar vita a dischi del calibro di In Requiem e Faith Divides Us – Death Unites Us, beh, qualche perplessità su tale affermazione sorge spontanea.
Com’era lecito aspettarsi, il nuovo The Plague Within, quattordicesimo studio album della band inglese, prosegue sui binari tracciati dagli ultimi dischi ma dalla sua può vantare un ispirazione maggiore. Sì, perché The Plague Within può tranquillamente esser definito il miglior disco dei Paradise Lost dal 2005 (compreso) ad oggi o per chi avesse odiato la svolta elettronica di metà anni novanta, dal 1995 ad oggi. Un album che è la perfetta trasposizione in musica di ciò che la band inglese è, la rappresentazione ed espressione del proprio io più profondo. Un disco capace di esprimere – forse come mai fatto prima dal combo inglese – quel sentimento di disagio, di sofferenza da sempre insito nella band. Un sentimento che a volte può tramutarsi in atmosfere sognanti, altre in uno sfogo di rabbia senza eguali. Questa la sintesi dell’album. The Plague Within porta con sè gli elementi che hanno caratterizzato i primi cinque dischi dei Paradise Lost, dando però loro una connotazione contemporanea, al passo con i tempi, valorizzata da una produzione semplicemente perfetta, cristallina e calda allo stesso tempo. A farla da padrone è la componente doom a cui vengon sapientemente legate quelle melodie e atmosfere sognanti che hanno caratterizzato dischi come Draconian Times e Icon. Basta ascoltare la stupenda No Hope In Sight o la successiva e più diretta Terminal, le due tracce poste in apertura del disco, per trovare conferma di quanto appena scritto. Ma come dicevamo poco sopra, The Plague Within alterna atmosfere sognanti a chiari sfoghi di rabbia che corrispondono a quella componente death che i Paradise Lost avevano ai loro esordi. Componente che aleggia nelle varie tracce, fino a trovare il proprio apice in Flesh From Bone, forse la canzone più violenta scritta dalla band di Nick Holmes.
The Plague Within è un disco capace di catturare l’ascoltatore, un disco vivo in grado di trasmettere – come solo i grandi lavori, quelli che si ricorderanno per anni, sanno fare – emozioni forti, emozioni capaci di far provare e vivere in presa diretta quel sentimento di disagio descritto in precedenza. Tutto questo è reso possibile da un songwriting ispiratissimo e da una prestazione dei singoli semplicemente perfetta, risultando impeccabile dal punto di vista tecnico ed in grado di trasmettere quel qualcosa in più, in quanto calda e carica di pathos. Il disco si erge attorno all’ottimo lavoro del duo Mackintosh/Aedy alle sei corde, in grado di condurci in tutte le sfumature e forme del paradise lost sound. Sorprendono dei passaggi al limite dello stoner che incontriamo nella parte centrale di Punishment Through Time e all’inizio di Cry Out. I due chitarristi sono accompagnati alla perfezione dalla sezione ritmica in cui spicca lo splendido lavoro di Erlandsson alla batteria. Anche se, forse, ad impressionare più di tutti è Nick Holmes, capace di utilizzare tutto il proprio spettro vocale, dal growl più profondo ed oscuro ad una voce pulita, figlia diretta del periodo Host. Un continuo alternarsi di tonalità e sfumature in grado di valorizzare ulteriormente l’ottimo lavoro svolto dai compagni di avventura e di rendere ancora più marcati ed evidenti quei colori freddi che caratterizzano il sound dei ‘Lost. Sorprende in particolare l’utilizzo del growl, la cui qualità e potenza non ha paragoni nella discografia della band inglese. Il fatto che Holmes sia entrato a far parte dei Bloodbath ha sicuramente inciso in positivo sotto questo punto di vista.
The Plague Within non dirà nulla di nuovo riguardo l’universo Paradise Lost, un universo che oramai conosciamo bene e da cui sappiamo cosa attenderci. E’ però un disco che non tradisce le attese e che anzi sorprende per la qualità delle composizioni. Un disco che va ascoltato nella sua interezza, un disco capace d’incantare, riuscendo nell’arduo compito di svelare piccoli e nuovi dettagli di sé ascolto dopo ascolto. I Paradise Lost dimostrano così d’esser in forma strepitosa, capaci di sfornare un disco che può guardare al proprio glorioso passato a testa alta. Al momento, per chi scrive queste righe, il miglior disco uscito in questa prima parte di 2015.
Marco Donè