Recensione: The Prelude Implicit
A ben sedici anni di distanza dal finora ultimo capitolo in studio (“Somewhere To Elsewhere”) e all’indomani del pesantissimo cambio in line up che ha visto l’entrata in scena di Ronnie Platt nelle vesti di nuovo cantante in luogo del dimissionario Steve Walsh, non appare azzardato affermare che le premesse per incutere una buona dose di timore nel cuore degli aficionados dei Kansas ci fossero tutte.
Per fortuna, al netto di un’età anagrafica (dei membri e della band, attiva sul campo sin dall’ormai lontano 1973) ormai piuttosto avanzata e in virtù della qualità – davvero elevata – delle canzoni contenute nel nuovo album dal titolo “The Prelude Implicit”, quello dei Kansas è uno dei rari casi nei quali richiamare il celebre detto «la classe non è acqua» non appare un semplice esercizio di retorica.
I Kansas A.D. 2016 continuano infatti sulla strada di un progressive rock tastieroso e raffinatissimo, indubbiamente aggiornato sul piano puramente sonoro e degli arrangiamenti quanto pervaso da un’eleganza e da una leggiadria assolutamente fuori dal tempo. Le incursioni in territori assimilabili all’AOR e all’art rock non mancano e anzi giovano dell’ottima prova vocale di un ispiratissimo Ronnie Platt, come nel caso delle iniziali “With This Earth” e “Visibility Zero” – entrambe peraltro impreziosite dai significativi contributi del violino di David Ragsdale, altro elemento distintivo nell’economia del loro sound. D’altro canto, dato l’elevato bagaglio tecnico, conoscitivo ed esperienziale di musicisti del calibro di Rich Williams (chitarra), Billy Greer (basso) e Phil Ehart (batteria) non è davvero possibile stupirsi nel trovare il combo statunitense a proprio agio in ogni situazione, dalle atmosfere soft della favolosa ballad “The Unsung Heroes” – animata da squisiti accenti pop e da un azzeccato accompagnamento di pianoforte e keys sintetiche – fino al mood più roccioso di “Rhythm In The Spirit” e “Camouflage”, passando per brani atipici come l’acustica “Refugee”, caratterizzata da un uso dei cori da manuale.
“The Prelude Implicit” è, come avrete intuito, un album denso di contenuti, al punto che per ognuna delle singole canzoni varrebbe la pena di spendere una sorta di mini-recensione, basti pensare agli sfarzosi otto minuti e venti di “The Voyage Of Eight Eighteen”, nella quale il prog e l’art rock, le fughe di violino e momenti al limite del jazz si alternano senza soluzione di continuità, ammaliando e intrappolando anche il più smaliziato degli ascoltatori.
Marciando poi di gran lena verso il finale incocciamo la solare “Summer”, certamente il brano più easy listening in scaletta, l’AOR energico e lussureggiante di “Crowded Isolation” (vocalmente non troppo distante da territori battuti dai colleghi Toto) e la conclusiva “Section 60”, strumentale di gran classe in grado di suggellare al meglio la riuscita dell’album.
I Kansas sono tornati e, al netto dell’inevitabile nostalgia nei confronti di un gigante della caratura di Steve Walsh, occorre dire che “The Prelude Implicit” non mostra segni di cedimento, ritagliandosi il proprio spazio senza patemi di sorta all’interno di una tra le discografie più celebrate della storia del Rock e imponendosi come una delle uscite più interessanti dell’intero 2016.
Stefano Burini