Recensione: The Quantum Enigma
Our vision of life says what we will experience
Our vision of death defines what we will see.
(“Sense Without Sanity – The Impervious Code”)
Copertina supponente, che ricorda i Therion in superficie, e rivela, sotto il livello dell’acqua, il lato sempre ambizioso degli Epica, tra fisica e metafisica. Questa la veste di The Quantum Enigma, settimo album in studio per la band olandese, dal titolo poco originale, ma con un minutaggio sempre generoso e la solita prepotente presenza di arrangiamenti orchestrali.
Dopo Retrospect, il dvd celebrativo del decennale (con un gradito omaggio a Pergolesi), il combo erede degli After Forever si ripropone più in forma che mai nel modo con cui fonde il metal allo pseudo-sinfonico.
Va detto da subito: per chi non ama il genere di musica proposto da Jansen & Co. il platter risulterà un’ora abbondante di pomposità fine a se stessa, infarcita di rapsodiche frasi in latino; gli amanti della band, invece, gioiranno a fronte di un’ispirazione che risulta ancora una volta veemente, pur avara d’innovazioni eclatanti.
A essere precisi, una novità c’è e si tratta della graditissima presenza della compagna di tour Marcela Bovio (Ayreon, Stream Of Passion) alle seconde voci, in sostituzione di Amanda Somerville, che fu ospite in Requiem for the Indifferent. La talentuosa cantante messicana (scoperta e lanciata da Arjen Lucassen) dà maggiore spessore alle parti vocali, le impreziosisce con il suo timbro che s’intreccia mirabilmente con quello sempre divino di Simone Simons e aggiunge un minimo di originalità al sound monodirezionale degli olandesi. Questo però non basta, se sommato alla breve intro etnica “The Fifth Guardian” e alla ballad “Canvas of life”, per creare un capolavoro, tutt’al più un altro valido tassello nel mosaico che è la discografia in fieri degli Epica.
Fatta questa premessa, veniamo alla musica.
All’inizio dell’enigma un intro canonico, “Originem” (con la /g/ gutturale, come da pronuncia nordeuropea), su lidi tra Within Temptation, Nightwish e Rhapsody of Fire, gruppi che continuano a influenzare nel bene e nel male la band della cantante rossa crinita. I testi sono solenni: «Nos sumus coniuncti / Fontem nostram quaerentes / […] Nihil certum est». Ars longa, vita brevis in altri termini: i toni sono fin da subito filosofici.
Dopo l’effimero preludio, “The Second Stone” attacca al fulmicotone con un riff su corda vuota (che ricorda vagamente “On The Way To Ainor” del gruppo di Lione). Largo spazio è lasciato al coro, cui subentra la voce fatata della Simons, sorretta dalla Bovio: l’intesa tra le due voci crea un effetto convincente e i due timbri paiono fondersi alla perfezione, dando più vigore ai registri medio-alti della mezzosoprano. Il drumwork di van Weesenbeek è sempre millimetrico (troppo?) e il refrain anthemico fa rifiatare l’ascoltatore dopo strofe di potenza sostenuta. Non mancano i grunts e un breve assolo di chitarra. In sostanza un brano che trasuda epicità, ma cautamente inquadrato negli standard sonori della band di qui a diversi anni. Le liriche sono cupe e angosciate («As time goes by I try to choose / Don’t know where to roam in this private hell») con apparenti schiarite («Let me believe between sweet fiction and reality / My train thoughts got lost somewhere along the way»), ma in fondo tragiche («All that is left is a cross that’s mine to bear / A cruise with no ending drenched in anxiety»).
“The Essence of Silence” (notare il titolo allitterante del primo singolo estratto dall’album) attacca con una strizzata d’occhio al djent, poi prosegue con il solito dialogo voce solista-coro, chitarre droppate e armonie sospese. Doppia cassa, tanta pomposità e suono incredibilmente saturo: ascoltare, per credere, il silenzio “primordiale” che si crea nei secondi finali. D’altra parte i testi parlano proprio del sommo valore del silenzio: «Search for essence / Find the silence within you».
Attacco degno degli Amaranthe più affilati quello di “Victims of Contingency”, che presenta anche qualche blast-beat e rintocchi à la Nightwish. Di nuovo ottimi gli equilibri tra tastiere ariose, apporto corale, lato sinfonico e grunts. Buono anche il messaggio che la band tenta di trasmettere: «If you don’t face the weakness of your own self / You will take the same course […] We can’t blame all our failures on someone else».
“Sense Without Sanity” (che richiama alla mente fugacemente la stupenda “Leaden Legacy” degli After Forever) inizia vellutata, quasi come colonna sonora, per poi riproporre il sound roccioso degli Epica. La Simons sfodera glissati a effetto e, nella seconda parte della traccia, Marcela Bovio risulta sua degna comprimaria e valorizzata dal missaggio. I testi non sono proprio dei più ottimisti; ne è chiaro esempio la voce diegetica che poco dopo il quarto minuto recita: «The longer you wait for the future the shorter it will be». Raggiungono, poi, livelli notevoli: «Our perspective on birth / Defines how we honor life / […] Our perspective on death / Defines how we spend our days». In seguito si riallacciano al tema dell’intro: «We’re searching for the origin / Dig deeper, where we’ve never been / […] We don’t know how we should evolve».
“Unchain Utopia” (altro singolo) incede con vaghi echi orientaleggianti e ottoni sguaiati. Bello lo stacco al min. 3:14, ma s’inizia ad avvertire una certa monotonia. Il songwriting insiste sulla criticità dei tempi attuali: «We’re in a time where all enterprises fall / We should beware of the wolves that haunt us».
Fortunatamente a fugare le prime avvisaglie di ripetitività, segue una parentesi d’eccezione, l’inframmezzo “The Fifth Guardian – Interlude”, tra le sorprese del platter: minuti di deriva orientale (cui si ricollega l’artwork), aspetto non estraneo al sound degli Epica (penso a brani come “Seif Al Din”, “Fools Of Damnation” e “Martyr Of The Free World”). Le sonorità etniche, per di più, si volgono quasi in musica celtica, incredibile! Una riuscita commistione di “Last of The Wilds” e “Arabesque” degli ultimi Nightiwish.
La presenza dell’interludio non è fine a se stessa, questo serve nell’economia del disco a rendere ancora più terremotante l’attacco di “Chemical Insomnia”, altra potenziale hit. L’apporto di batteria è disarmante, l’ascoltatore pare come trasportato dalla carrozza in copertina al capolavoro Abigail di King Diamond. I testi parlano della dipendenza a farmaci, antidolorifici e affini, che privano l’uomo del suo naturale equilibrio psico-fisico: «Don’t give in to all of this / Dive into ecstatic bliss / Tame the lion that’s hiding the need to be free». Consigliato un parallelo con “Your Body is a Battleground”, pezzo dell’ultimo album dei Delain, in cui si affronta la stessa tematica.
Altro brano trascinante “Reverence – Living in the Heart”, però poco originale. Al min. 3:55 un assolo di tastiera (degno degli Ayreon) segue senza soluzione di continuità un exploit di chitarra, ma il tutto si risolve in poche decine di secondi. Nel finale pare di ascoltare più una drum-machine che un essere umano alla doppia cassa. Interessanti i testi che esortano a non intendere la vastità della vita umana come mera sommatoria di pensieri ondivaghi, dettati dalla sconfortante supremazia di una mente spersonalizzata: «Don’t let it burn you down / Live in the heart / Experience the now […] / You’re not your thoughts»
“Omen – The Ghoulish Malady” attacca con tappeto di pianoforte e il refrain è salvato dalla Bovio. Il tema portante, un filo triste, ben si accorda per dissociazione con il guitarwork tagliente. Le liriche invitano al recede in te ipse: «When it feels like no one is answering / Revert to your deep inner force». Il ritornello a due, inoltre, è un inno alla riuscita sinergia tra Simone Simons e Marcela Bovio («Together we’ll be strong / To defy all that can’t bring us down»), duo portavoce dell’intera umanità («You will not fight alone / […] As one we’ll overcome / It unites us all in life / All misery we face in life»). Non siamo sui toni immortali del Fiore del deserto di Leopardi, ma poco ci manca.
I toni si acquietano (ma non del tutto) con la ballad “Canvas of Life”, che nasce da un leitmotiv semplice ma vincente, prima proposto dai tasti d’avorio e subito doppiato da una chitarra acustica con qualche abbellimento. La Simons è d’applausi. Perché, mi chiedo, non mettere in scaletta un altro brano simile, invece d’insistere su uno sfoggio d’energia spropositato? In questo caso le parole messe in musica sono poesia pura: «Stuck in the light of day/ Waiting for answers / A seed that grew into branches, Depicting a beautiful scene that shapes divinity».
Ancora pianoforte per “Natural Corruption”, con chiari rimandi ai Nightwish più ispirati. Si tocca il tema della pecunia idolatrata («Now that we have finally realized / Realized, petrified / That profit’s made from innocent demise»), con una speranza di redenzione per l’Uomo («In modern society / Welfare is stained, time to come clean again»). Il finale del pezzo è trionfale e incastona uno dei migliori assoli di chitarra del full-length.
A concludere ambiziosamente il platter ci pensa la lunga title-track (seconda parte della suite di cui è apparso il capitolo V in Desing your universe, come sono soliti fare gli Epica dividendo in parti le suite) aperta e chiusa da un esoterico didgeridoo. A metà brano una voce narrante scandisce l’asserto: «Without a voice the soul is invisible in time and space». Risponde il coro su registri altissimi («Vita est mare / Infinitarum facultatum»), seguito dalla Simons (So we will finally see / All of the universe / Exists by being observed / Expanding every day»). Il gioco delle parti si conclude con un grandioso assolo della 6-corde al min. 8:41. Nella coda il tema suonato da un Glockenspiel lascia l’ascoltatore con un pianissimo di gran classe.
Questo il track-by-track.
Ci si sente soddisfatti dopo un ascolto filato di The Quantum Enigma, ma anche visibilmente provati, dopo aver retto a un disco così “esigente” per più di un’ora.
Per trarre qualche considerazione finale, si può dire che il full-length necessita di parecchi ascolti per essere compreso: il sound così pieno e magniloquente del gruppo olandese pecca di ripetitività, ma resta coerente con quanto composto da Design Your Universe in avanti.
Tante le fanfare, i cori maestosi e le sfuriate ritmiche. Nella tracklist spiccano “Chemical Insomnia”, “Canvas of Life”, “Omen” e “The Quantum Enigma”, brani più rappresentativi del meglio che gli Epica sanno proporre a oggi. Siamo, altresì, su livelli superiori al pur valido Requiem for the Indifferent.
Ottima la produzione, soprattutto quella della base ritmica, a cura di Joost van den Broek (ReVamp, MaYan) e Jacob Hansen (Volbeat, Pestilence), che fanno sembrare lontani i missaggi discutibili dei primi album dei tulipani.
La prova della Simons è più che sufficiente, mentre Marcela Bovio è d’applausi. Da segnalare anche la spietata verve di Ariën van Weesenbeek alle pelli, batterista che macina rullate su rullate e resta una caposaldo dell’identità degli Epica. Centellinati, invece, gli assoli di chitarra e tastiera, ma questo ultimamente non è un aspetto cardine del gruppo.
Album che batte, in definitiva, sia Hydra dei Within Temptation, sia The Human Contradiction dei Delain, grazie anche a testi ricercati, che richiedono una lettura più che attenta.
p.s. Non mi dilungo sulle edizioni limitate del disco, ognuno scelga quella che preferisce; un orecchio di riguardo, però, se lo merita la versione strumentale di questa ora di musica nient’affatto commerciale.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)
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