Recensione: The Rain Under
“Avremmo potuto stupirvi con effetti speciali…” recitava un vecchio spot televisivo degli anni ‘80. Questo lo stratagemma che avrebbero potuto usare anche gli Inno da Roma, ed è invece con rara grazia e semplicità che si apre “The Rain Under“, album di debutto della band che vede tra le sue fila noti esponenti della scena capitolina. Una grazia che certamente si sviluppa attorno ai versi ricamati da Elisabetta Marchetti (ex Riti Occulti), ma che permea l’intera struttura dell’opener “Suffocate“, così come è caratteristica persistente dell’intero lavoro. Dato che accomuna praticamente tutti i membri della band è la provenienza da esperienze decisamente più pesanti rispetto alla proposta della presente disanima (Hour Of Penance, Fleshgod Apocalypse); eppure, sembra proprio che i nostri abbiano voluto diminuire l’aggressività del suono e concentrarsi su un altro tipo di intensità, più cerebrale, esprimendosi a livello musicale attraverso un dark gothic metal di impostazione moderna, ma che vede tra i padri putativi nomi abbastanza classici del genere. Le atmosfere e le chitarre in particolare sono quelle dei Katatonia nella loro fase centrale, ma l’influenza principale è probabilmente quella dei Lacuna Coil degli inizi. Tuttavia, come si diceva, il suono non è ancorato al gothic del passato, ma, forse anche a causa del masterizzazione curata da Jacob Hansen (già al lavoro con Amaranthe, Volbeat, Delain tra i tanti), la sensazione è di un approccio moderno. Oltre alle sonorità, ciò che rende la proposta degli Inno attuale è una certa ricerca di strutture più articolate in termini ritmici soprattutto, in certi momenti ai confini del progressive. Si prenda come esempio l’ultima esperienza di Anneke Van Giersbergen con i suoi Vuur. Ma dopo aver cercato di inquadrare la proposta del gruppo (atto doveroso quando si ha a che fare con un debut album), addentrarsi tra le composizioni permette ancora meglio di apprezzare tutte le sfumature a disposizione. Ancora rimandi ai Lacuna Coil in “The Hangman“, con ripartenze vigorose che fanno da sottofondo a trascinanti linee melodiche, il tutto avvolto in un groove ragionato, mai eccessivo. Appunto, non c’è voglia di strafare nella musica degli Inno, di catturare l’attenzione con il ritornello accattivante, con la soluzione di facciata o il break artificioso. Ogni riff, ogni arrangiamento sembra davvero creato in funzione della canzone e nessuno, dalla brava vocalist fino al solito, eccellente Giuseppe Orlando alla batteria, risalta sugli altri nonostante le evidenti capacità tecniche (esempio a tal proposito, “The Last Sun” dove il batterista ex-Novembre disegna un pattern che rimanda direttamente al lavoro di Martin Lopez con gli Opeth nei loro momenti più delicati). “Pale Dead Sky“, giustamente utilizzata come primo video clip ufficiale, rappresenta in pieno l’essenza del gruppo: una sorta di mood contemplativo ed estatico incorniciato dalle vocals che, in perfetta armonia e con potenza controllata, si apre nel riffing rotondo e avvolgente della chitarra di Cristiano Trionfera. C’è sapore di gothic nordeuropeo d’alta scuola nell’attacco di “Night Falls“, che presto si trasforma in trascinante vortice sonoro grazie al continuo rincorrersi di chitarra e di un cantato intenso e passionale, mentre “To Go Astray” (il cui inizio non può non ricordare quello della celebre “Heaven’s A Lie“) si rivela certamente uno degli episodi più pesanti e più propriamente metal dell’intero lavoro, con un persistente tappeto di doppia cassa e un lavoro di chitarra adattissimo alla riproposizione dal vivo.
Ciò che è da valutare positivamente, oltre al songwriting maturo e alla cura dei dettagli tipica di chi non è alle prime armi, è l’impegno nel fare quel passo in più a livello di scelte stilistiche, esempio in questo senso una ritmica non sempre lineare e che sfocia nel progressive, come si diceva prima. Ovviamente un progressive non barocco, ma essenziale, moderno e “adulto”. Dopo “Scorched“, lunga oscura e solenne è il turno di “Misericordia” che sembra confermare come la seconda parte dell’album sia più compassata e opprimente in quanto ad atmosfere. In chiusura, come spesso succede, una cover di lusso, la pinkfloydiana “High Hopes“, già riproposta dal vivo dai Nightwish, che la band capitolina propone in una versione più diretta e dinamica rispetto al capolavoro originale.
Ottimo, quindi, questo esordio degli Inno. Ancora una volta, una band italiana che, nel silenzio delle sale prova, lontano dai proclami, dalle ospitate di lusso e dalle sponsorizzazioni di grido, partorisce un disco validissimo che davvero può piacere a tanti. Dark metal? Va bene, se proprio dobbiamo catalogarli, ma a prescindere dalle etichette, “The Rain Under” è un lavoro che deve essere ascoltato.
Vittorio Cafiero