Recensione: The Red In The Sky Is Ours
È prassi comune, benché a mio parere soggettiva oltre che errata, ricondurre la storia di una band a un solo e preciso disco. Non è una presa di posizione e non è chiaramente rivolta ai fan storici del metallo in tutte le sue sfaccettature, ma quanti conoscono i Metallica solo per la copertina e il titolo accattivanti di “Master Of Puppets”? E gli Slayer prima di “Reign In Blood”? Si potrebbe andare avanti con i Death di “Symbolic” e così per decine di storiche band che sono ricordate e associate al loro cosiddetto ‘miglior disco’.
Perché questa premessa? Perché spero serva a ri-considerare sotto un’altra prospettiva l’ascolto del primo full-length “The Red In The Sky Is Ours” degli svedesi At The Gates, troppo spesso accostati al loro indiscusso capolavoro “Slaughter Of The Soul” che, oltre alla notorietà (data soprattutto dall’approdo dalla Peaceville all’Earache Records, già label di Carcass, Morbid Angel e Deicide), ha portato, come spesso accade nel passaggio da ambiti underground alle cosiddette ‘major’, all’inevitabile rottura del gruppo.
Fino a qualche anno prima dell’uscita di “The Red In The Sky Is Ours” il fenomeno death metal in Svezia stava prendendo una sua direzione soprattutto con act come Entombed, Unleashed e Dismember, che si facevano portavoce del cosiddetto ‘swedish death metal’, il cui sound da lì a poco sarebbe stato oggetto di emulazione in tutto il mondo. A seguito di questa prima ondata ce ne fu una seconda a Göteborg, dove gruppi come Dark Tranquillity, In Flames e At The Gates diedero inizio a quello che sarebbe stato ribattezzato col nome di ‘melodic death metal’. Le influenze venivano da oltreoceano (Morbid Angel e Death in primis), dalla NWOBHM e, soprattutto, dall’ormai dilagante black metal della vicina Norvegia, che stabiliva nuovi parametri per quel che riguardava la musica estrema.
È in questo contesto che gli At The Gates danno così vita al primo di quattro dischi in altrettanti anni che li porteranno all’apice della fama con il già menzionato “Slaughter Of The Soul”.
S’inizia dalla title-track “The Red In The Sky Is Ours” che, seppur divisa in due sezioni, mette subito in chiaro le intenzioni degli At The Gates. Blast beats, tempi dispari, ed ecco che un urlo graffiante di Tompa introduce alla seconda parte “The Season To Come” dove un violino solo in(s)tona una melodia popolare, ‘sostenuto’ soltanto da un temporale che fa da background. La successiva “Kingdom Gone” esalta il lato black della band oltre che con l’ottimo drumming di Erlandsson soprattutto con l’abrasiva voce di Lindberg, che era ben risaputo s’influenzasse reciprocamente con Varg Vikernes dal punto di vista musicale. Nella seconda parte, rallentata al ‘punto giusto’, le chitarre armonizzate disegnano tetre frasi sulle quali un solo paranoico ma allo stesso tempo affascinante entra in piena sintonia con l’atmosfera del brano. Nella prima parte di “Through Gardens Of Grief”, titolo preso in prestito dal primo EP “Gardens Of Grief” (1991), l’influenza dei Death è evidente, seguita da una sezione di tempi dispari e poi dal violino di Jarold che prima disegna una malinconica melodia con tamburi battenti in sottofondo e poi fa da contraltare alla voce con un intervento che richiama la nostra musica popolare mediterranea. Il riff introduttivo “Within” è di quelli che hanno reso celebri i Black Sabbath, mentre quello cromatico seguente è di quelli ostici e solo nella parte centrale un’invocazione disperata di Lindberg («i can’t go on living in this dead world, crawling through the life i hate») porta a una sezione di tempi dispari. Tocca ancora una volta al violino armonizzato con le chitarre dare al finale un tocco inaspettato. L’intro di “Windows” è una perla e il brano ci fa intendere a grandi cifre quello che molti hanno definito ‘come andrebbe suonato il melodic death metal’.
In “Claws Of Laughter Dead” regna la cattiveria, interrotta solo da brevi e atonali soli di basso. Ancora le chitarre armonizzate di Svensson e Anders Björler fanno da leitmotiv con il riffing tipico di quello che sarà uno degli elementi caratteristici del sound degli At The Gates, che farà da scuola per molti gruppi negli anni a seguire. “Neverwhere” racchiude l’essenza del disco nel suo insieme, qualunque parola andrebbe a sminuire questo gioiello. “The Scar” ci concede un momento di riflessione prima dei due brani finali. “Night Comes, Blood Black” è impregnata di black metal e il brano di chiusura “City Of Screaming Statues”, già presente in “The Gardens Of Grief”, chiude con Lindberg che sussurra «the music of the truth, the light of the end»: chiuso il sipario.
Disco da non perdere per chiunque e, anche se per molti la produzione non è all’altezza, a mio parere risalta il contenuto e il messaggio dell’ensemble scandinavo. L’ascolto ripetuto è obbligatorio per entrare il più possibile a contatto con l’abilità compositiva e creativa di una delle band che ha dato spunti originali e nuova linfa a quello che sarà il death metal (nelle sue diverse ramificazioni) negli anni a seguire.
Vittorio “VS” Sabelli
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Tracce:
1. The Red In The Sky Is Ours/The Season To Come 4:41
2. Kingdom Gone 4:40
3. Through Gardens Of Grief 4:03
4. Within 6:54
5. Windows 3:53
6. Claws Of Laughter Dead 4:03
7. Neverwhere 5:41
8. The Scar 2:01
9. Night Comes, Blood Black 5:16
10. City Of Screaming Statues 4:38
Durata 46 min.
Formazione:
Tomas “Tompa” Lindberg – Voce
Alf Svensson – Chitarra
Anders Björler – Chitarra
Jonas Björler – Basso
Adrian Erlandsson – Batteria
Jesper Jarold – Violino