Recensione: The Red Mist Of Endenmore
Basta poco a rovinare un bel quadro: se ne sarà accorto chi per primo ha pensato di disegnare i baffi alla Gioconda. E se ne saranno accorti, nel loro piccolo, anche i Powers Court. Innumerevoli peripezie hanno scavato un solco di sette anni fra “The Red Mist Of Endenmore” e il precedente “Nine Kinds Of Hell”, e di questo non si può certo far loro una colpa. Loro colpa, loro grandissima colpa saranno semmai le scelte sciagurate che hanno guastato le più che promettenti basi del loro terzo album.
Come già in passato, Manilla Road e King Diamond restano i numi tutelari cui si appella Danie Powers, carismatica leader di questo trio statunitense, per dar forma a un Epic Metal oscuro e potente, che raccoglie insieme l’eredità dell’U.S. power metal e del proto-progressive dei Fates Warning di “Awaken The Guardian”. I debiti verso la tradizione di Mark Shelton e soci si inquadrano in un riffing granitico, potente, muscolare; un vero e proprio ariete da sfondamento in un songwriting che non conosce compromessi. La melodia ha un ruolo tutt’altro che invadente ma decisivo; le premesse per esaltare gli irriducibile dell’heavy metal più epico, puro e incontaminato ci sarebbero tutte. Tuttavia…
Tuttavia, un paio di dettagli non proprio secondari finiscono per affossare fatalmente tutti questi buoni propositi. Il problema non sta tanto nelle composizioni in sé. Certo, qualcuno potrà giudicare il songwriting eccessivamente omogeneo, ma altri preferiranno definirlo semplicemente “coerente” e la questione si chiuderà lì. Qualche grattacapo in più potrà venire dalla produzione, persino inferiore a certi prodotti amatoriali. E vale a poco la bella favola del “sound grezzo e incontaminato di una volta” quando bisogna violentarsi le orecchie per distinguere le linee di basso o quando sembra che piatti e rullante siano stati sostituiti con una batteria di pentole e coperchi. Ma l’autentico suicidio artistico della band si compie altrove. Se la volitiva Danie valesse come cantante un decimo di quel che vale come chitarrista, il sottoscritto non avrebbe nulla da obiettare. Ma perché ostinarsi a tenere fra le proprie grinfie il microfono quando si è platealmente in guerra aperta con l’arte del bel canto? Ok, ci sarà chi vorrà definire il suo timbro insolitamente androgino “particolare” o “interessante”, ma una stecca è pur sempre una stecca – così come tante stecche, da qualunque parte le si guardi, restano tante stecche. Qualche esempio? L’attacco dell’iniziale “The Prophecy” è un disastro canoro che smorza in un baleno gli iniziali entusiasmi per un riffing da par suo epico e travolgente. Poco oltre, i cori della rocciosa “Kingdom Falls” più che un omaggio al popolare Re Diamante sembrano un ossequio all’un po’ meno popolare marchese De Sade. Quanto al ritornello di “There Once Was A Time”, siamo di fronte a… ma lasciamo stare, l’andazzo si è oramai capito, proseguire sarebbe solo un’indelicatezza nei confronti del buon cuore della band.
Facile insomma giocare al ribasso contro questi ragazzi, che da parte loro si battono da quasi vent’anni in difesa di un’ideologia musicale condannata a vivere nell’ombra, sì, ma invero dura a morire. Il punto è che se potessimo dimenticarci delle linee vocali e della produzione indecente, ci troveremmo davanti nulla meno che un buon disco di Epic Metal, sincero e nostalgico. Solo che, ahinoi e ahiloro, non possiamo. Ci tocca quindi constatare il fallimento di uno sforzo che avrebbe probabilmente meritato miglior sorte. Alla band non resta che meditare suoi propri errori e, magari, dare il microfono in mano a qualcuno che ne sappia fare un uso migliore. Tutto sommato, non dovrebbe essere un’impresa proibitiva.
Riccardo Angelini
Tracklist:
1. Ab Initio
2. The Prophecy
3. Power Tapestry
4. A Somber Day
5. Kingdom Falls
6. Darkness Calls
7. The Tarot Reader
8. Outrage
9. The Red Mist Of Endenmore
10. There Once Was A Time
11. Vain Regrets
12. Cold Day In Hell (bonus track)