Recensione: The Revenant King
Il mondo legato all’heavy metal da sempre mostra i muscoli sulla base di chitarre sferraglianti, bassi a mo’ di bulldozer e batterie terremotanti. Un coacervo di carichi da novanta solitamente accompagnato a ugole d’acciaio in modalità bollocks off. I promotori di cotante efferatezze sonore spesso portano in dote e sugli scudi nomi che si rifanno a categorie e tipologie di guerrieri sanguinari del passato remoto, rafforzando il concetto: Barbarians, Ostrogoth, Berserks, solo per citarne tre.
Stranamente nessuna band a nome Visigoth, nel novero, quantomeno finora. Evidentemente Alarico, dopo aver realizzato il sacco di Roma, nell’agosto del 410, qualche discendente l’ha però fatto pure approdare al di là dell’Oceano Atlantico, qualche secolo dopo, più precisamente in quel di Salt Lake City, nello Utah.
Jamison Palmer (chitarra), Leeland Campana (chitarra), Jake Rogers (voce), Matt Brotherton (basso), Mikey T. (batteria) questi i nomi dei giovani epigoni dei temuti barbari originari dalla Scandinavia. The Revenant King, dalla copertina affascinante e fottutamente in linea con il moniker rappresenta il loro primo, ufficiale, urlo di battaglia sotto forma di full length. Le cronache narrano di un demo del 2010 e di un Ep del 2012 precedenti a questo lavoro marchiato Metal Blade Records.
Nove i brani in scaletta, fra i quali spiccano alcune reprise di pezzi già editi nei lavori precedenti, saggiamente: perché scartare a priori episodi di valore che altrimenti resterebbero patrimonio dei soli ultras del combo yankee?
The Revenant King apre le danze a chitarre spiegate andando a piazzarsi, a livello di pathos espresso, a metà fra gli Iron Maiden e la Ronnie James Dio band. I cinque metaller dello Utah dimostrano di conoscere il passato, per poter interpretare al meglio delle proprie possibilità il presente, nel brano successivo, ossia la solenne Dungeon Master, riecheggiante gli Heavy Load. Intrigante l’incedere a la Manowar di Mammoth Rider, portante altresì in dote vecchi echi patrimonio degli Amon Amarth. Un disco dalla copertina siffatta si sublima nella grandeur epica di Blood Sacrifice, così come le asce impregnate della lezione fuoriuscita dai solchi di Into Glory Ride prendono a braccetto Iron Brotherhood, brano già presente del demo del 2010. Così come fatto in passato per Battle Cry degli Omen, i Visigoth si cimentano per l’occasione nell’interpretazione di un classico del passato: Necropolis dei Manilla Road, un doveroso tributo ai maestri. Asce come cavalli al galoppo a la Iron Maiden maniera si impossessano delle trame contenute in Vengeance, altra reprise, un pezzo che emana spiccato profumo di marca Nwobhm negli stacchi della parte centrale.
Ariosa, scanzonata e meno impegnata rispetto al resto risulta Creature of Desire, ripescata dall’Ep Final Spell: metallone ideale per essere proposto dal vivo forte di cori da rock arena che riescono nell’impresa di lambire l’intensità sprigionata solitamente dagli Iron Savior. A chiudere, i dieci minuti scarsi di From the Arcane Mists of Prophecy, in pratica il manifesto d’Acciaio degli americani, cesellato fra cambi di tempo, accelerate e impennate eroiche.
The Revenant King si rivela esordio di alto tonnellaggio, senza dubbio, anche se la sensazione è che i Visigoth abbiano la possibilità di alzare ulteriormente l’asticella, focalizzando al meglio la propria proposta siderurgica per il prossimo futuro.
Stefano “Steven Rich“ Ricetti