Recensione: The Roots of a Sacred Tree

Georgia. La montuosa Georgia ombreggiata dalle vette del Caucaso. Aspra terra di vita degli Askeesi che, con “The Roots of a Sacred Tree“, tracciano il segno del terzo full-length in carriera.
A mano a mano che passano i mesi, gli anni, sono aumentate a dismisura le band dedite a uno dei sottogeneri più emotivamente profondi che è dato di conoscere: l’atmospheric black metal. Connubio mirabile fra tutto quanto serva a creare paesaggi musicali entro i quali volare grazie alla forza e alla potenza del nero metallo.
In questo insieme, ormai si sarà già capito, rientrano Gvantsa Giorgadze, voce, e il mastermind Beka Gachava, esecutore degli strumenti tutti. Un duo che riesce a mettere assieme oltre settanta minuti di arte allo stato puro. Perché è così che bisogna definire, senza sbagliare, l’album suddetto.
Un disco senza fronzoli, che non propone sperimentazioni ma che va dritto al sodo, anzi, per meglio dire, al fondo del cuore. Il black di base è quello classico. Aggressivo, potente, ferale, maneggiato con le famigerate chitarre zanzarose, quindi, e harsh vocals, per citare due aspetti comuni ovunque. Reiterate ondate di blast-beats saettano nell’atmosfera in occasione dei turbolenti temporali che orlano spesso le foreste dei rilievi caucasici. Lì, dove vive il culto dell’albero sacro cui sono dedicate le oscure tematiche. Che, rispettando il concetto del paganesimo visto come devozione alla Natura, innalzano i cori che narrano di un amore sterminato per le montagne (“The Mountains Are My Refuge (დეცე ლახვრა)“).
S’è detto del black, cui è necessario aggiungere tutto l’impianto armonico proveniente dal genio di Gachava per un risultato che apparentemente non si discosta dalla media ma che, invece, ripetendo nemmeno troppo gli ascolti, si scatena, esplode, salta in aria con una ridda di orchestrazioni clamorose (“Castle of Despair“).
Il livello compositivo è, almeno a parere di chi scrive, assestato ai massimi livelli possibili. Assai vicino, pertanto, a quelli della musica classica. Sì, perché in “The Roots of a Sacred Tree” le armonizzazioni abbracciano senza tregua le canzoni utilizzando soprattutto gli archi che, più di altri, sono quelli che procurano sapore alla musica sinfonica. Del resto non è difficile dimostrarlo: l’intro strumentale “The Foggy Mountains of the Caucasus” è di una poderosità e bellezza senza fine, con i suoi incommensurabili picchi di orecchiabilità che, mischiati all’ambient ivi proposto, donano a chi ascolta momenti di sublime distacco dalle cose materiali. La mente vola alto, osserva le nebbie che, come serpenti, ruotano fra gli alberi delle foreste, offrendo un contrasto nero/bianco che, poi, è anche il contrasto che tiene su l’atmospheric black metal.
Il disco prosegue fra improvvise, furiose accelerazioni e repentini rallentamenti in cui sarebbe facile perdersi se non ci fosse la mano ferma di Gachava a indicare il percorso attraverso le buie vallate. Un percorso lungo, a volte tortuoso (“The Roots of a Sacred Tree“), in cui si mischia la veemenza del black ad aulici cori e morbide, eteree arie, a volte maggiormente lineare (“Saint Askeesi“), sempre e comunque lisergico di visioni chiare, nitide, del viaggio in itinere. Accompagnato da linee vocali molte volte disperate, quasi a voler significare che tornare indietro, quando sarà il momento, sarà solo tormento e non estasi.
La titanica suite finale riverbera nel cuore dei più sensibili l’esplosione della maestosità della Natura, il silenzio dei boschi, i riti e le usanze dettate dagli antichi folclori narrati e suonati con i relativi strumenti davanti a un fuoco sacro. La complessità del songwriting è tale che da sola basterebbe per dare alle stampe un EP (similmente a quanto successo in passato per i Venom con LP “At War with Satan”, lato A, 1984) dalle dimensioni incalcolabili, dilatate all’infinito dalla spinta erculea della sezione ritmica. Di nuovo, melodie dalla musicalità senza pecche s’innestano sulla struttura portante della traccia, rendendola completa in ogni suo aspetto.
Alla fine dei conti non resta che inchinarsi a un’Opera di proporzioni mastodontiche, dalla longevità senza tempo, che accarezzerà e/o bastonerà le orecchie per lungo tempo.
Lunga vita agli Askeesi!
Daniele “dani66” D’Adamo