Recensione: The Ruins We Used to Call Home
Cosa potranno mai avere in comune una delle più grandi opere della classicità, l’Odissea, e un sotto genere musicale moderno, il metalcore, parimenti debitore all’hardcore e all’heavy metal? Ovviamente nulla. D’altro canto, come si dice in questi casi, ciò che non esiste può sempre essere creato ed proprio ciò che i romani Fear The Sirens provano a fare con il nuovissimo “The Ruins We Used To Call Home”, uscito tramite Indelirium Records.
La band capitolina si compone di cinque elementi, Davide Passavanti alla voce, Danilo Capri e Andrea Taddei alle chitarre, Emanuele Agazzi al basso e Lorenzo Coluccia alla batteria e propone un melodic metalcore di buona fattura che strizza l’occhio nei titoli scelti per le varie canzoni proprio al celeberrimo poema di Omero. L’approccio, rispetto a quello di gruppi più legati al death o al thrash metal come As I Lay Dying, Killswitch Engage e Shadows Fall, è certamente più soft, ciò nonostante i Fear The Sirens riescono in ogni caso a mantenersi a distanza di sicurezza da certi eccessi mielosi tipici di tante band dal taglio più “emo” come Atreyu, Destroy The Runner e Bullet For My Valentine. La produzione è di alto livello, e la realizzazione molto professionale, sia dal punto di vista della confezione (davvero bella e riuscita la copertina) che dell’esecuzione, eppure i veri punti di forza di questo album si possono rintracciare nelle ottime clean vocals di Passavanti e in una certa varietà di fondo, sempre apprezzabile quando si parla di un genere affollato e tutto sommato rigido nei propri canoni stilistici come il metalcore.
Apre le ostilità la strumentale “My Name Is No-Man”, una brevissima intro cui viene lasciato il compito di spianare la strada alla successiva “Odissea”, di fatto la vera e propria opener. Le clean vocals e i cori si distinguono subito per la buona riuscita e anche il guitar work si mantiene dinamico ed incandescente per tutta la durata del pezzo per quanto, forse, l’effetto sarebbe stato ancora migliore affidando a “My Name Is No-Man” qualche istante in più per creare ulteriore suspence e atmosfera. “From Here We Start” è senza dubbio la top track in scaletta: il riffing è indovinatissimo, le melodie vocali pure e i suoni, limpidi e colorati, rendono al 110% le finezze di un guitar work decisamente ispirato. Appena dietro, ma sempre molto interessante e ben articolata, la quarta in scaletta, “Till The End Of Days: di nuovo valorizzara da belle melodie in pulito e dall’ormai familiare guitar work, nel contempo aspro e fluente e a tratti addirittura djenty, della premiata ditta Capri & Taddei. Nemmeno “Ithaca”, durissima e caratterizzata dal lato più aggressivo del cantato di Passavanti, mostra di voler mollare in alcun modo la presa e solo con l’eterea strumentale “Where The Ocean Sleeps” e il riuscito effetto-sospensione creato dal passaggio di consegne tra due brani così differenti giunge finalmente l’agognato rallentamento, uno stacco in grado di conferire grande slancio a tutto quanto ascoltato finora.
Da qui in poi, purtroppo, le composizioni dei FTS tendono ad appiattirsi un po’, perdendo freschezza e attestandosi su un livello medio complessivamente più basso di quello degli episodi migliori sin qui proposti da “The Ruins We Used To Call Home”. “This Is War” gira un po’ a vuoto e a poco vale la presenza di Josh Baker dei Napoleon, in veste di ospite speciale, nel tentativo di dare nuova a linfa ad un brano di per sé sufficiente e nulla più; va un po’ meglio, viceversa, con “Comet” e “The Reach”, piacevoli ma non trascendentali e, purtroppo, afflitte da un uso smodato di cori. Tuttavia, per tornare su livelli paragonabili a quelli della prima metà dell’album, dobbiamo attendere “Rewrite The Route”: breve, incisiva e finalmente illuminata da una linea vocale di pregio, si configura come una delle migliori in scaletta. Un altra breve strumentale, “A Fire In the Night”, interessante in quanto a contenuti ma poco funzionale per via del posizionamento, finisce purtroppo per spezzare inopportunamente il ritmo prima delle conclusiva “A New Dawn”, tra le meno convincenti, insieme al terzetto composto da “This Is War”, “Comet” e “The Reach”, per via della sostanziale ripetizione di schemi e stilemi già sentiti (e con maggiore ispirazione ed efficacia) nelle prime sei tracce.
Luci ed ombre, dunque, ma una buona base di partenza, sia dal punto di vista tecnico che attitudinale, con il plus costituito da alcune ottime idee che fanno capolino in vari frangenti senza tuttavia trovare continuità. La prima metà dell’album è, come accennato, piuttosto interessante e carica di buoni spunti; avviandosi, al contrario, verso la conclusione paiono subentrare in più d’un occasione il mestiere e qualche piccola ingenuità perfettamente perdonabile ad un gruppo giovane e di buone prospettive. Il consiglio che ci sentiamo di dare ai Fear The Sirens per migliorare ulteriormente una proposta già oggi valida è quello di lavorare sulla varietà di soluzioni, approfondendo l’interessante inserimento di pezzi strumentali ed coltivando ulteriormente la capacità di introdurre tante piccole finezze vocali e strumentali in grado di costituire, alla lunga, un notevole valore aggiunto. Probabilmente i capitolini non sconvolgeranno il mondo del metalcore, tuttavia i margini di miglioramento sono molto elevati e le potenzialità per creare, partendo da queste basi, un sound ancor più particolare e personale ci sono davvero tutte.
Stefano Burini
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Tracklist
01. My Name Is No-Man (0:26)
02. Odissea (3:24)
03. From Here We Start (3:14)
04. Till the End of Days (3:53)
05. Itacha (3:12)
06. Where the Ocean Sleeps (1:38)
07. This Is War (3:07)
08. Comet (3:31)
09. Rewrite the Route (2:59)
10. The Reach (3:05)
11. A Fire in the Night (0:55)
12. At the Dawn (3:22)
Line Up
Davide Passavanti: voce
Danilo Capri: chitarra, backing vocals
Andrea Taddei: chitarra
Emanuele Agazzi: basso
Lorenzo Coluccia: batteria