Recensione: The Savage Playground

Di Fabio Vellata - 17 Febbraio 2013 - 0:00
The Savage Playground
Band: Crashdïet
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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80

Nessuno ora potrà definirli una meteora, comparsa d’improvviso e destinata a svanire all’orizzonte con un carico di scintille sfavillanti.
Trovata la stabilità in line up, raccolte le forze derivate dai consensi piovuti con il precedente – ottimo – “Generation Wild” e registrato il songwriting verso i toni accesi, abrasivi ed arcigni dell’hard glam selvaggio contaminato di ruvidità heavy, i Crashdiet ritornano in scena con un album complesso ed efficace, degno successore del sontuoso platter edito nel corso del 2010.

Pare, in effetti, che la chiassosa combriccola guidata dal chitarrista Martin Sweet e dal sempre più carismatico singer Simon Cruz, abbia davvero scovato la formula giusta per ottenere lo scettro di miglior realtà sleaze attualmente in circolazione. Molti pretendenti, tanti qualificati, ma in pochi ad oggi, capaci di conferire continuità qualitativa alle proprie uscite, mantenendole entro i livelli d’eccellenza riconosciuti solo alle grandi leggende del settore.
Strafottenti come Guns e Motley, talora orecchiabili come Skid Row e Poison, spesso eleganti e cromati quasi in stile Def Leppard, i quattro svedesi dimostrano con “The Savage Playground” di aver ormai incamerato tutti i caratteri necessari a farli assurgere a ruoli di primissima grandezza, confermando sensazioni sinora conclamate ma ancora da approfondire in modo compiuto.
Probabilmente il più americano dei titoli sfornati sinora dalla band di Stoccolma, “il crudele parco giochi” mette in evidenza quanto già definito nei contorni in occasione proprio di “Generation Wild”: un collettivo che, prendendo evidente spunto da grandi eroi classici, sta riuscendo nella titanica impresa di evolversi dalle semplici velleità celebrative, per dar luogo ad un corso proprio, miscelando influenze di nomi storici al fine di fornirne una visione propria, contemporanea ed attuale.
Rivitalizzando nel contempo, un genere conservatore per concetto come il glam rock.

In realtà nessun eccessivo sconvolgimento nel sound, quanto un’evidente e palpabile padronanza della materia, risiede alla base di un’impostazione compositiva che consente di coniugare – in modo spesso brillante – l’abilità nel centrare melodie facili con tonalità talvolta dure ed urticanti, arricchite da un certo – sottile – impulso alla “sperimentazione”.
Un’esperienza matura e definita che si nota limpida ad esempio nell’opener “Change The World”: incazzati a mille, Sweet e compari gettano sul campo ardore selvaggio e cattiveria imperativa, non mancando però l’appuntamento con armonie che entrano in testa a gamba tesa e con insospettabili ceselli nella struttura, offrendo un cambio di tempo improvviso in grado di innalzare in modo esponenziale il livello emotivo del pezzo.
Un modus operandi che denota sicurezza frammista ad un pizzico di voglia di osare: qualcosa che, in altri termini, potremmo definire “personalità”.

L’elevata caratura dei Crashdiet attuali consiste proprio in questo, nel saper amministrare le regole del gioco in maniera autonoma e personale, pur rimanendo saldamente ancorati ad un genere fisso ed acclarato. Particolare che, come ovvio, non pone al riparo da qualche passaggio a vuoto ed in parte rende la miscela meno immediata ma che, con buona certezza, consente di raccogliere molto spesso esiti di notevolissimo valore.
“The Savage Playground” ne è lampante testimonianza: meno diretto di quanto atteso pur se caratterizzato da una prima parte omogenea e di grande efficacia, alterna eccellenti trovate con battute conclusive forse in tono minore, mostrandosi comunque sempre dotato di spunti pregevoli e di discreta fruibilità, in cui riconoscere ottime performance individuali ed alcune soluzioni di buon interesse.

Alle bellissime “Cocaine Cowboys”, “Anarchy”, e “Circus”, infatti, forse non rispondono adeguatamente tracce quali “Got a Reason” e “Damaged Kid” episodi “solo” gradevoli se non addirittura “singolari”, come nel caso della conclusiva e coraggiosa “Garden Of Babylon”.
Pur tuttavia va riconosciuta alla band svedese, una diffusa capacità nel saper confezionare hookline in grado di mantenersi stabili entro buoni livelli ed una voglia di imporre un proprio stile davvero encomiabile e meritevole di plauso, in un percorso evolutivo iniziato con “Generation Wild” ed ora ampliato ulteriormente.

Un album in sostanza, da ascoltare più volte e con maggiore attenzione rispetto a quanto solitamente tributabile ad una qualsiasi altro prodotto di genere glam, laddove sfumature, elementi di inattesa complessità e divagazioni insolite, compaiono ad ispessire un songwriting solo all’apparenza semplice e lineare.
Un aspetto già di per se anomalo ed utile nel determinare il valore artistico raggiunto in questi anni dall’ensemble scandinavo, assurto al rango di band solida, dalla quale attendere ulteriori novità di certo interesse negli anni a venire.

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Tracklist:

01.    Change The World
02.    Cocaine Cowboys
03.    Anarchy
04.    California
05.    Lickin’ Dog
06.    Circus
07.    Sin City
08.    Got A Reason
09.    Drinkin’ Without You
10.    Snakes In Paradise
11.    Damaged Kid
12.    Excited
13.    Garden Of Babylon

Line Up:

Martin Sweet – Chitarre
Simon Cruz – Voce
Peter London – Basso
Eric Young – Batteria

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