Recensione: The Sea Within
In molti aspettavano questa uscita del nuovo supergruppo scandinavo dal moniker suggestivo, che in quattro sillabe condensa la perizia di cinque musicisti con un curriculum inimitabile. I The Sea Within nascono sullo scorcio del 2017 per volontà dell’InsideOut Music e, date le capacità compositive dei membri chiamati in causa, la fase di registrazione è stata celere in quel dei Livingston Studios di Londra. Sebbene Roine Stolt all’inizio paventasse un mezzo flop il risultato è tutt’altra cosa e, come dice lui stesso, il debut album dei TSW include «elements of progressive and art rock combined with pop and cinematic music» (elementi di rock progressivo e art rock, uniti a musica pop e cinematografica). Come non bastasse, l’artwork è una bomba e gli ospiti aggiuntivi di rilievo: stiamo parlando, infatti, di Jordan Rudess (Dream Theater), Jon Anderson (Yes), Casey McPherson (Alpha Rev, Flying Colors) e Rob Townsend.
L’album è diviso in otto tracce, per 50 minuti di musica, ed è obbligatorio seguire la tracklist senza saltare singoli brani. Già con qualche impressione suscitata dai due singoli proposti con relativo video, iniziamo fiduciosi l’ascolto del full length. “Ashes of Dawn” è una traccia atipica con un incedere a tratti oscuro (vengono in mente i momenti di “A Vampire’s View” dei The Flower Kings in Adam and Eve proprio con Gildenlöw alla voce); la coppia Stolt–Reingold si trova alla perfezione, ma anche il drumwork di Minnemann è valore aggiunto, insieme all’hammond di Tom Brislin e il sax imbizzarrito di Rob Townsend. Un pezzo tecnicamente ineccepibile, con buona creatività, forse qualche asprezza di troppo, evitabili in un opener di un’opera prima. Più soft e lineare “They Know My Name”, con tanti sintetizzatori e chitarre in secondo piano: la ribalta è tutta per Gildenlöw, che sa quando calcare la parte (da sempre suo tratto distintivo). Si continua su toni vellutati con “The Void”, brano che esplode solo a tre quarti di minutaggio, per poi tornare al chiaroscuro iniziale, subito illuminato dall’avvio ritmato di “An Eye for an Eye for an Eye”, pezzo rock-oriented (da sette minuti) con buon lavoro alle seconde voci. Nella sezione strumentale trovano posto anche momenti jazz impreziositi da vocalizzi dal leader dei Pain Of Salvation, per poi tornare su lidi prog. Diverte anche l’attacco di “Goodbye”, che sembra preso da un album dei The Tangent. Qui, però, al microfono c’è la voce inconfondibile di Casey McPherson (Alpha Rev, Flying Colors) che sta al posto giusto nel momento giusto, in modo da spezzare l’album a metà. Gli ultimi 100 secondi sono praticamente strumentali e gli appassionati di Yes e The Flower Kings avranno di che andare in sollucchero, complici pure alcuni fill sincopati di Minnemann (che usa anche il doppio pedale come da dettato portnoyano). Dopo l’intermezzo “Sea Without” (che nel titolo rovescia il moniker della band) è la volta dell’unica suite in scaletta, “Broken Chord”, quattordici minuti con ospiti il già citato McPherson e l’immenso Jon Anderson. La composizione inizia in modo spigliato e gradualmente cambia forma, attraverso cambi di ritmo repentini (ascoltate le magie di Minnemann alla fine del sesto minuto!). Al giro di boa l’atmosfera si fa lisergica come nei migliori momenti retrò dei The Flower Kings: intrecci di voci, basso fretless e minimalismo controllato regalano momenti di decompressione prima dell’esplosione finale e fade-out di matrice Transatlantic. Dopo un simile pezzo, come epilogo, “The Hiding of the Truth” è un altro centro e la presenza di Jordan Rudess ai tasti d’avorio (oltre che Stolt al microfono per alcuni istanti) non può che essere il perfetto suggello di un album concepito per regalare musica di livello, anche se non un capolavoro. Il bonus CD della deluxe edition prevede altre quattro tracce per circa una mezzora aggiuntiva di musica (non di skip-song!); da segnalare almeno la mesta “Denise”.
Ci possiamo dire soddisfatti del debutto dei The Sea Within? La nuova band è composta da polistrumentisti eclettici, che possono cantare, comporre e arrangiare in modo invidiabile. Ricordiamo che un chitarrista come Roine Stolt ha come minimo una ventina di album all’attivo (tra TFK, Kaipa, Transatlantic e vari progetti paralleli), ma sa ancora attualizzare il dettato dei Seventies superbamente. Il principale limite del supergruppo sta nella fusione a freddo dei suoi componenti, i quali hanno bisogno di più tempo per raggiungere un livello di affiatamento che consenta loro un maggior impatto a livello d’originalità ed emotivo. Siamo certi che se la discografia del combo si arricchirà di altri tasselli il risultato sarà superiore a questo debutto. Basta un po’ di pazienza!
p.s. La band suonerà al festival Night of the Prog XIII in Lorelei (Germania) che si terrà dal 13 al 15 luglio, insieme a band come Riverside, Big Big Train, Threshold e Camel. Per tutti i progster tappa d’obbligo in questa estate infuocata.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)