Recensione: The Search Goes On
Esistono già da un bel po’ di tempo, eppure, nonostante la buonissima qualità della loro musica, ben pochi si sono accorti di loro. Fondati nel corso del 2005 ed autori sin qui di quattro album, gli svedesi Kamchatka meriterebbero, in effetti, ben più visibilità di quanta ottenuta sinora.
Il rock innervato di profonde radici blues, le atmosfere anni settanta con devianze stoner ed un po’ di psichedelia, l’anima di Jimi Hendrix che abbraccia le cadenze dei Deep Purple e di Glenn Hughes.
Chi mastica suoni affini alla grandezza dei seventies più nervosi ed arroccati in stilemi rock blues, avrà già sgranato gli occhi e preparato le orecchie all’ascolto di una release – quinta in carriera – che mantenendo le promesse, riserva abbondanti soddisfazioni agli appassionati di sonorità orgogliosamente vintage.
Un nome su tutti salta alla memoria al termine del reiterato ascolto di “The Search Goes On” – album dalla copertina singolare che tradisce una sorta di simbolica allegoria con tematiche vicine al concetto di “profondità” – quello dei sontuosi ed irripetibili Black Country Communion, non a caso, funambolico side project di Glenn Hughes, probabilmente uno degli artisti cui i Kamchtaka guardano da sempre con massimo trasporto ed ammirazione.
Ogni brano trasuda sentimento e riesce a rendersi comunicativo, assimilando proprio all’approccio tipicamente Purple, un taglio caloroso ed avvolgente, immediato, passionale, quasi Hendrixiano.
Il merito è senza dubbio, oltre che dell’effettivo valore delle strutture bluesy architettate da Thomas Andersson e Tobias Strandvik, pure dell’eccellente lavoro svolto in sede di produzione dal terzo membro della band, quel Per Wiberg che in molti ricorderanno per la lunga esperienza in compagnia di Spiritual Beggars, Anekdoten e soprattutto Opeth, qui anche in veste di bassista “ufficiale”.
Mai troppo veementi ed accesi nelle cadenze, i dieci brani di questa nuova uscita discografica conquistano con immagini fascinosamente sbiadite ed un po’ retrò, lasciando del tutto perdere qualsiasi artificio che non sia diretto discendente di una strumentazione classica per definizione.
Le chitarre, la voce e la sezione ritmica basso/batteria, descrivono ogni istante del disco, abbracciando atmosfere dai sapori autentici, a tratti quasi cantautoriali. Mai privi d’elettricità, i pezzi di “Search Goes On” appaiono talvolta davvero un prodotto fuoriuscito dall’epica scena anni settanta, con l’ombra di Jimi Hendrix, Jefferson Airplane e Grateful Dead sullo sfondo di composizioni che all’impatto immediato prediligono la ricerca del “mood” adatto, richiedendo all’ascoltatore un pizzico di acclimatamento prima di prendere il largo ed avvolgerne le emozioni.
La familiarizzazione con episodi quali “Somedays”, “Tango Decadence”, “Son Of The Sea” e “Dragons”, lascia in eredità i gradevoli sentori di un sound che invita spesso al movimento (è davvero difficile non trovarsi ad accompagnarne i ritmi coinvolgenti), mentre è in “Coast To Coast”; “Broken Man” e “Thank You For The Time” che ci si attende, quasi come dovuta, necessaria ed inevitabile, la comparsa della voce del già citato Glenn Hughes a condurne le linee melodiche.
Mr. Hughes non è della partita, ovviamente, tuttavia non serbiamo dubbi sul fatto che, qualora interpellato, si sarebbe detto entusiasta ed estasiato all’idea di appoggiare le proprie divine corde vocali su armonie a lui tanto adatte ed affini.
Plauso ad ogni modo per l’eccellente performance di Thomas Andersson, forse un pelo meno espressivo della gigantesca “voice of rock”, ma ugualmente efficace e performante.
D’impatto infine la conclusione del cd, riservata alla title track “The Search Goes On”, momento “psychedelic” che congeda con qualche riverbero immaginifico ed onirico da un disco dalle importanti qualità.
Ascoltato e riascoltato, preso a pezzi o tutto d’un fiato, canzone per canzone o intero, questo nuovo album dei Kamchatka non smette di piacere nemmeno dopo la classica prova del tempo che, al contrario, pare alimentarne lo charme.
Al decimo passaggio, le armonie sono ormai divenute una piacevole consuetudine cui si rinuncia malvolentieri per passare ad altro, sintomo inequivocabile di essersi imbattuti in un’ottima release discografica.
Molto probabilmente nemmeno adesso ci si accorgerà di loro e quello di Andersson, Strandvik e Wiberg rimarrà sempre il classico nome ancorato all’underground più oscuro e sconosciuto.
Tuttavia, gli amanti dei Black Country Communion che dovessero imbattersi fortuitamente in questa recensione provino a dare quanto prima un ascolto approfondito.
Non ci sono dubbi: apprezzeranno…
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