Recensione: The Seven Crowns
Stortura. La chiave di lettura per entrare nel mondo dei Trounce è questa, ma andiamo con ordine. Galeotto, in questo caso, fu il Roadburn, e la storia è semplicissima: il festival chiese a Jonathan Nido, boss della Hummus Records, di creare ed eseguire una nuova composizione, e questo è il risultato. Il disco è stampato in pochissime copie in cd e vinile e offre anche la registrazione del concerto avvenuto ad aprile.
The Seven Crowns entra di diritto nel sottoinsieme delle grandissime figate prodotte dal Roadburn negli ultimi anni (qualcuno ha detto Waste Of Space Orchestra?) ed è un’opera di assoluta eccellenza. Il difficile però viene ora: come suona? Torniamo all’inizio: stortura. I Trounce suonano musica estrema, forsennata, con un tessuto ritmico che spazia dal black al death e rimane sempre su ritmi sostenutissimi e con una preponderanza di blast beat devastante. Poi, il buon Jonathan, inserisce tutto ciò che è atipico e va ad esplorare lidi toccati da pochi, dando alle stampe una serie di arrangiamenti e soluzioni di rara intelligenza.
La dissonanza qui sguazza come un dinosauro nella sua prima savana e le chitarre suonano molto spesso quello che non ci dovrebbe essere, raggiungendo risultati incredibili: possiamo trovare un riff al limite del doom sostenuto da un blast beat, arpeggi bislacchi, salti di corda repentini e chi più ne ha più ne metta. Pare non sia stato implementato il basso, ma le chitarre colmano ampiamente la lacuna e rimangono abrasive come la carta vetrata.
La voce di Renaud Meichtry poi merita un capitolo a parte e qui si alza il livello. Prendete quello che è a tutti gli effetti un disco estremo e cantatelo con tutte le linee vocali bislacche che vi vengono in mente ma senza usare growl e scream. Ecco, qui non solo ci si prova ma ci si riesce. Ricorda molto l’approccio che avevano gli Alchemist: un clean sporchissimo che andava ad assestarsi su del progressive death di pregevole fattura. I Trounce fanno più o meno la stessa cosa ma a 78 giri e con più varietà di registri.
Questa proposta non solo eccelle, ma ha anche ampi margini di miglioramento e di esplorazione, e ci auguriamo che The Seven Crowns non sia solo un episodio isolato ma l’inizio di un progetto di sperimentazione musicale; se questo è solo l’inizio, chissà cosa potrebbe essere pubblicato in futuro.
Il metal estremo ha bisogno anche e soprattutto di dischi come questo: cerebrali, intelligenti e con quella follia without sbrodolo gratuito di tecnica insensata di cui si sente tanto la mancanza. Difficile quindi consigliare i Trounce ai fan di un gruppo o di un altro, perché offrono un range talmente ampio di soluzioni da rendere difficile l’inserimento in qualsiasi genere preciso. Parliamo comunque di nicchia della nicchia della nicchia, ma di quell’underground che spesso sfoggia perle di assoluta bellezza e che meritano tutta l’attenzione possibile. The Seven Crowns è una di queste.