Recensione: The Shadow at the World’s End
[Bloodgut, Dead Sun, Down Among the Dead Men, Echelon, Eye of Purgatory, Fondlecorpse, Furnace, Ghoulhouse, God Cries, Grisly, Humanity Delete, Johansson & Speckmann, Lobotomy Dept, Massacre, Megascavenger, Monstrous, Necrogod, Paganizer, PermaDeath, Pile of Skulls, Putrevore, Reek, Ribspreader, Rogga Johansson, Severed Limbs, Stass, Svitjod, The Cleaner and Mr. Filth’s Van Murders, The Dead Cold, The Skeletal, Those Who Bring the Torture, To Descend, ex-Carve, ex-Demiurg, ex-Eaten, ex-Foreboding, ex-Minotaur Head, ex-Skeletal Spectre, ex-Swarming, ex-Terminal Grip, ex-The Grotesquery, Troikadon, ex-Banished from Inferno, ex-Graveyard After Graveyard, ex-Sinners Burn, ex-Soulburn, ex-The 11th Hour, ex-Deranged (live), ex-Bone Gnawer, ex-To the Gallows…]
E, naturalmente, Revolting.
Il mostruoso elenco di band di death metal sopra elencate fa parte dell’infinito roster di Rogga Johansson, chitarrista e cantante svedese, quasi fosse un’etichetta discografica invece di un singolo musicista. Noto ai più per il suo impegno sino allo spasimo frutto di una frenetica, inarrestabile, compulsiva foga compositiva.
Revolting che si sono formati nel 2008 e che, a oggi, annoverano fra le loro fila sei full-length, compreso questo, un nuovo pargolo chiamato “The Shadow at the World’s End”. Per il quale il primo impatto si dimostra complesso nei suoi risvolti principali: riuscire a comprendere quali siano le differenze del combo di Gamleby con le altre creature di Johansson non è affatto facile. Anzi. A onore del vero, non sembra ci siano degli evidenti segno caratteristici che operino distinzioni nette fra un gruppo e l’altro. Tuttavia, in questa sede, il tema da svolgere è quello di mettere a fuoco i Revolting stessi, lasciando un po’ perdere il resto.
Revolting, che evitano di lasciarsi incantare dalle più avanzate novità nel campo di cui si tratta per sciorinare un death metal classico, ortodosso, con una notevole propensione per l’old school. La vecchia scuola. Cioè, per essere più precisi, lo swedish death metal che imperava agli inizi degli anni novanta. In ciò di può tranquillamente affermare che il Nostro sia un vero intenditore, forse come pochi altri al Mondo. Sì, perché il sound della formazione scandinava si può dire che sia perfetto nella riproposizione di cliché ben noti alla letteratura metallica. Chitarre zanzarose ma non troppo, fautrici di tonnellate di riff; voce stentorea scevra da sofisticazioni varie (growling, ecc.), tutta polmoni e gola; basso che espleta mere operazioni di accompagnamento e batteria. Batteria che rifugge estremi ritmici tipo blast-beats per assestarsi su ambiti più tranquilli e sicuri quali mid e up-tempo – escluso il caso di ‘Carnage Will Come’ e ‘Revolted by Life Itself’, in cui i sempiterni quattro quarti si fanno a tratti furibondi.
Niente di nuovo sotto il sole, quindi, se non una profonda sensazione di dejà vu che non lascia adito a nessuna sorpresa. Nell’evidente ordine mentale di Johansson, infatti, le varie canzoni si susseguono con un costante rispetto della foggia musicale madre, non lasciando spazi di manovra per improvvise scorribande al di fuori di un territorio delimitato con forza dal quale è impossibile sconfinare. Un pregio, da un lato, poiché questo contribuisce a segnare con tratto marcato il marchio di fabbrica di un sound che, però, dall’altro, manca clamorosamente di originalità.
“The Shadow at the World’s End” è un LP coerente all’inverosimile con se stesso, su questo non c’è alcun dubbio. In ogni suo punto suona esattamente come negli altri segmenti. Se però si prova ad analizzare le varie tracce, ecco che allora compaiono tutti i difetti di un songwriting piatto e privo di spunti interessanti. C’è un buon apporto melodico, questo occorre riconoscerlo, insufficiente tuttavia a soffiare una vita propria nei vari episodi. Che, a causa di questa… impalpabilità di scrittura, appaiono un po’ tutti uguali fra loro. Tant’è che, anche a forzare gli ascolti, nessuno di essi resta impresso nella memoria. Con che, a poco a poco, s’insinua nemmeno tanto subdolamente il nemico numero uno di un’opera musicale: la noia.
Si può pertanto riconoscere il giusto valore a Johansson come esempio di rettitudine, serietà e passione, calibrate ovviamente all’aspetto musicale di cui è fecondo autore, ma poco di più. “The Shadow at the World’s End”, alla fin fine, non possiede alcun elemento di spicco che possa invogliare qualcuno a renderlo suo. Inoltre, i Revolting sono troppo simili ad altre centinaia di formazioni che praticano lo stesso genere. Davvero troppo simili.
Per concludere, due modi dire… ma che dicono tutto: «chi troppo vuole nulla stringe» e «il troppo stroppia». A buon intenditore poche parole, insomma.
Daniele “dani66” D’Adamo