Recensione: The Shadowthrone
Una melodiosa litania d’organo, accompagnata da soli strumenti e attraversata da un alone trascendentale, conduce a chiusura questo disco suggellando l’apoteosi dell’amore viscerale di Satyr verso quella “Madre Nord” di cui canterà le lodi nel successivo “Nemesis Divina”: un’armonia che non mancherà di cullarvi malinconicamente, un’armonia che di Black non ha niente, ma che è talmente evocativa da risultare perfettamente integrata in un album, questo, strettamente legato alle radici e tradizioni musicali folkloristiche norvegesi.
Un album ideato, creato e incastonato tra quegli altri due gioielli che rispondono al nome di “Dark Medieval Times” e “Nemesis Divina”: cupo e depressivo il primo, potente ed evocativo il secondo… ed in mezzo, questo “The Shadowthrone” che racchiude in se lo spirito d’ebano più puro e quindi malinconico e decadente, lo spirito di una terra sincera ma ormai frustrata e violentata da forze estranee che ha perso per sempre la sua fiera verginità, ma che rivive nell’orgoglio, nel ricordo, o meglio, nell’evocazione dei nostri miti ancestrali, quei miti comuni a tutti ma sepolti nel baratro del nostro inconscio da montagne di menzogne figlie di una società ingannevole…
Mai così giusto e privo di demagogica retorica è stato dire di “Essere tutti Norvegesi”, di essere tutti figli o quantomeno discendenti (anche indiretti) di quella patria che, nascosta nei meandri più bui e profondi della nostra mente, viene qua rievocata, richiamata nel suo spirito ad emergere e coinvolgere nelle proprie spire la nostra anima, costringendoci, ammaliati da questa musica, a cantarne in coro il suo splendore… come resistere di fronte ai coinvolgimenti emotivi di “Hvite Krists díd” o di “Vikingland”, come non cantare in coro dei passaggi come “Borte var de av guds jord, bak en mírk sky manen sa ra og kald, Sungen er siste tone av en gravsang” o, ancora più vigorosamente “Langt inn i mellom híye fjell og dype daler, Gjennom norske skoger og mírke huter, Bak her en drím for over tasen aar siden, Til hordaland kom pesta og bragte díd og pine, Thekseskogen ble plantet rítter for et rike som skulle komme”…
Impossibile resistere ai richiami del nostro istinto, si può solo desistere e lasciarsi trasportare, lasciarsi incantare da una musica indissolubilmente legata alle tradizioni, una musica drammaticamente forte e carica di violenza, ma non di una violenza superficiale e ruspante (leggi diretta) e apparentemente fine a se stessa come in altri casi: le amenità qui lasciano il posto al cuore, la violenza è meno aggressiva, più meticolosa, più raffinata, più malvagiamente profonda e arriva a toccare, ad accarezzare le corde più recondite della nostra anima, lentamente, quasi dolcemente lasciando in noi una sensazione di disagio e soprattutto di malinconia… una malinconia a tratti masochista, in quanto fortemente desiderata e accolta con piacere dal nostro cuore d’ebano che non mancherà di sussultare alle prime avvisaglie di “In The Mist By The Hills” e “Woods To Eternity”…
La foto di Satyr, sul retro del booklet, e quelle di Samoth e Frost al suo interno, rappresentano la perfetta trasposizione di ciò che sprigiona quest’album, un’infinito viaggio nei luoghi e nelle terre dei Satyricon, “Dominions of Satyricon”… e mentre sentiremo il lugubre richiamo del vento che soffia tormentando le foreste di lontani ma cari paesaggi, potremmo addentrarci nel regno oscuro, accompagnati da “The King Of The Shadowthrone” e dalla sua chitarra acustica, dai suoi racconti, dalle sue tenebre, dal suo passato glorioso pronto a riemergere nella sua immensa immortalità… “I am spirit, I am stone, And I am immortal…”