Recensione: The similitude of a dream
Neal Morse, un gigante del neo-progressive rock, amatissimo da chi apprezza sonorità nostalgiche, incompreso da chi pensa sia un compositore che ripete sempre lo stesso spartito. Il punto è che il buon Neal propone un sound così eclettico da risultare spesso paradossalmente privo d’inventiva, proprio perché troppo “ricco”. Basti una controprova, qual è il suo platter migliore in carriera solista? One, oppure Question Mark, ma anche Sola Scriptura è un’ottima uscita… Difficile decidersi, così come stabilire se il meglio di sé l’abbia dato con gli Spock’s Beard o, appunto, con la sua avventura affiancato dall’amico ex-Dream Theater alle pelli. Avventura che prosegue senza sosta, siamo all’ottavo studio album per il trio delle meraviglie Morse-George-Portnoy, o meglio, l’ormai confermata The Neal Morse Band. La favola del cantante ex-Spock’s Beard continua, infatti, dopo l’apparente punto di svolta di The Great Experiment, che ha visto la line-up del gruppo arricchirsi del talentuoso Eric Gilette e Bill Hubauer.
Neal torna in parte sulle sue orme – anche se l’album in questione non è semplicemente un album nuovamente di stampo religioso – e decide di mettere in musica le prime cento pagine circa del “The Pilgrim’s Progress” (Il Pellegrinaggio del cristiano). L’opera è a firma di John Bunyan, predicatore battista inglese dalla biografia movimentata: polemizzò con il movimento quacchero, si scontrò con la Chiesa anglicana e scontò anche un periodo di reclusione, terminato fortunatamente grazie al “Merrie Monarch” Carlo II d’Inghilterra. The Pilgrim’s Progress è un testo seminale in ambito protestante (meno conosciuto dai cattolici), una grandiosa allegoria in due parti, pubblicata tra il 1678 e il 1682 a Londra. La storia narra del viaggio mistico di un Uomo dalla sua città natia (City of Destruction) a una non ben definita e agognata Celestial City. In questo cammino il protagonista dovrà lasciare mogli e figli e sarà accompagnato/tentato da due personaggi, Obstinate (Ostinato) e Pliable (Arrendevole). Si sprecano i rimandi a questo testo: Charles Dickens con ironia, pubblicando Oliver Twist opterà per il sottotitolo The Parish Boy’s Progress; William Hogarth è noto per la serie di incisioni The rake’s progress (Igor Stravinsky ci farà un’opera); infine Ralph Vaughan Williams ha composto un opus sinfonico che prende spunto da qui.
Tornando al compositore losangelino, possiamo dire che tutto è spiegato dopo questa premessa: il titolo copia parte di quello chilometrico coniato da Bunyan, la copertina si rifà a quella del libro a stampa (belle anche le illustrazioni nel booklet), il minutaggio, infine, è notevole, vista l’articolazione distesa del concept. Eh sì, The similitude of a dream è il terzo doppio CD del suo progetto solista (e l’anno scorso non è mancato l’ennesimo doppio cd live), i fan gioiranno, i meno abituati a tale prolissità prog.. resteranno nuovamente contrariati.
Tutto inizia in modo sontuoso, come ci ha abituato Neal dai tempi di One: dopo la vellutata “Long Day”, i quasi sei minuti dell’Overture regalano un pezzo strumentale prog. per palati fini. Si procede con un buon dittico, la ballad “The Dream” e la ruvida “City of Destruction”, con buon effetto di contrasto. I due pezzi successivi sono il paradiso delle tastiere e dei synth, l’unica cosa che non funziona sono le seconde voci soliste in “Makes No Sense”, troppo nasali (non stiamo certo parlando di Fish). L’attacco di “Draw the line” regala uno dei momenti con più groove dell’album, siamo quasi su lidi metal, con il basso corposo di George e il drumwork sempre preciso di Portnoy. In realtà il brano prosegue cambiando pelle e nella seconda parte presenta una sezione strumentale quasi fusion. Ritroviamo queste atmosfere simil-Alan Holdsworth anche nella successive “The slough” (la palude), con un Gillette d’applausi. Altro momento corale ed enfatico in “Back to the City”, peccato per il trattamento delle voci, troppo ardito. Geniale, invece, l’avvio theatrical di “The Ways Of A Fool”, con Portnoy al microfono, non per la prova dell’ex-DT in veste di cantante (ancora una volta da bocciare), bensì per le scelte sbarazzine d’arrangiamento che richiamano l’eccentricità di band come Beardfsh e ACT. Il primo CD termina con altri due buoni pezzi, anche se un po’ prevedibili e manierati. “So Far Gone” è più movimentata; “Breath of angels” ha il pregio di catapultare l’ascoltatore in una cornice gospel davvero trascinante (l’assolo di Gillette al min. 4:20 assomiglia a quello di “The Ministry of Lost Souls” dei Dream Theater, ascoltare per credere).
Fin qui possiamo dirci soddisfatti di The similitude of a dream, ci aspetta, però, un’altra ora circa di musica. La noia è lontana da imporre il suo triste giogo, proseguiamo con il secondo disco.
S’inizia in modo impegnativo: “Slave To Your Mind” è un pezzo falotico, dai ritmi intricati e mille finezze di Portnoy. Si poteva pensare a un diverso incipit, ma il concept a quanto pare ha vincolato Neal a questa scelta. Poco male, tuttavia, “Shortcut to Salvation”, in seconda posizione, è una ballad scanzonata, con tanto d’inserti di sassofono, mentre “The Man in The Iron Cage” è un instant-classic rockeggiante che, lo dico senza problemi, ricorda il dettato niente meno che dei Rainbow. Dopo l’intermezzo strumentale “The Road Called Home” (solo gli ultimi 10 secondi sono cantati), “Sloth” (Pigrizia) è un altro brano davvero memorabile dell’album. Momenti dilatati, richiami ai grandi Camel (pure basso fretless) e la voce di Gillette che dialoga sapientemente con quella di Morse. Una chicca per i fan, nel finale il rimando ai cugini The Flower Kings è più che palese.
Dopo i ritmi compassati e languidi di “Sloth” ci vuole solo un secondo a Neal per ridestare l’attenzione dell’ascoltatore: “Freedom Song” è un pezzo country che più americano non si può. E il climax non si ferma qui, “I’m Running” preme sull’acceleratore e lascia sfogare anche Portnoy tra controtempi e cenni di doppia cassa. Come un perfetto gioco a incastro ogni brano del concept collima con il precedente e quello che segue. “The Mask” è collocato al punto giusto al momento giusto: due minuti di pianoforte, poi un finale sperimentale che ricorda le pazzie dei Frost. Troppo forse? Non per la Neal Morse Band, che si appresta a concludere il suo nuovo tassello in discografia con una tripletta notevole. “Confrontation” richiama diversi motivi leitmotivici del concept e lo fa con un virtuosismo tecnico assoluto, ancor più accentuato nella barocca strumentale “The Battle” (davvero trascinante in certi momenti). Siamo oggettivamente provati dopo quasi due ore percorse da tale profluvio di note, cambi di atmosfera e tempi dispari. Ci vuole un epilogo che metta un punto a questa avventura sonora e faccia rifiatare. “Broken Sky / Long Day (Reprise)”, nonostante i dieci minuti di lunghezza, riesce a portare tutto a compimento. Niente di nuovo, sia chiaro, ritornano gli archi dell’opener, non manca un finale pirotecnico e una coda voce-pianoforte, ma è la ciliegina sulla torta.
Il 2016 si è aperto con un doppio concept album dei Dream Theater, che ne ha rivelato lati inediti; nove mesi dopo volge al termine con un altro doppio platter concettuale di tutto riguardo. The similitude of a dream è l’ennesima prova di classe di Morse e compagni, ma non raggiunge la qualità dell’ineguagliabile Snow oppure di Testimony. Vede bene, tuttavia, Portnoy, il quale, con toni solenni, commenta questa che è la sua diciottesima uscita con Morse come il suo miglior raggiungimento in carriera. Citare The Wall o Tommy, però, è un’esagerazione; l’ex-Dream Theater pare in una fase di vita in cui i bilanci del passato valgono più dei progetti futuri (anche per il suo prossimo show spagnolo Shattered Fortress).
Diciamo, più realisticamente, che Neal è riuscito a circondarsi di ottimi musicisti e ridare vitalità al suo sound puntando su un accorto recupero di temi allegorico-religiosi e un approccio leggermente più rock-oriented. Brani come “City Of Destruction”, “Draw The Line”, “The Man in The Iron Cage” e “Sloth” restano impressi al primo ascolto, il resto è buona musica. Peccato per il trattamento delle seconde voci, si poteva, si doveva fare meglio. Solo per questo l’album non raggiunge vette ancora più stellari.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)