Recensione: The Sky, The Earth & All Between

Gli Architects sono ormai da parecchio tempo considerati delle vere e proprie istituzioni quando si parla di Metalcore moderno. La band britannica di Sam Carter è riuscita negli ultimi anni infatti pur cambiando e sperimentando con il proprio sound, a tirar fuori una combo di dischi che hanno accresciuto ancora di più una popolarità già notevole. Con Those Who Wish To Exist del 2021 infatti, la band di Brighton ha virato su territori più orchestrali, sinfonici, catchy ma allo stesso tempo avventurosi, mentre con The Classic Symptoms Of A Broken Spirit del 2022, la band ha ricevuto più di qualche critica per un disco dalle sonorità troppo “easy listening” e troppo poco “heavy” rispetto al loro sound usuale, riuscendo nonostante questo a guadagnarsi una fanbase sempre più ampia, arrivando a suonare in ruoli di primissimo piano nei più grandi festival metal d’Europa.
Stavolta la band si è presa del tempo per partorire il nuovo disco The Sky, The Earth & All Between che arriva a tre anni di distanza dal precedente platter e che vede niente di meno che Jordan Fish (Producer di nota fama ed ex-tastierista dei Bring Me The Horizion), nel ruolo non solo di produttore, ma anche di compositore, per un disco che ritrova il suo stesso DNA e il suo marchio di fabbrica in tutto e per tutto, restituendo ai fan, degli Architects pesanti e viscerali che giocano con dei breakdown spaccaossa ma che allo stesso tempo non disdegnano l’uso di sintetizzatori, elementi elettronici, industrial e contaminazioni col pop, rendendo questo disco heavy, catchy ed emozionale allo stesso tempo.
Il primo singolo del platter Seeing Red, è stato rilasciato addirittura nel dicembre del 2023, per un pezzo che si è rivelato essere sin da subito un grande successo, specialmente grazie a quel suo “feel” particolare, dato da quei cori di bambini, molto enigmatici e d’effetto – “we only ever love you when you’re seeing red”- un testo diretto, che prende di mira gli stessi fan degli Architects, o meglio, quella fetta che non ha visto di buon occhio la svolta meno heavy e più catchy del precedente disco, accusandoli di amare la band esclusivamente nella loro veste più pesante e pregna di breakdown forsennati (da qui il significato della frase sopra citata). Insomma, un brano con una vena polemica, ma poco importa se i risultati sono questi, dato che Seeing Red rimane uno degli episodi meglio riusciti del platter, con uno splendido chorus in pulito di Sam Carter che continua a dimostrare di essere uno dei migliori vocalist della scena, sia nel pulito che nello scream. Ed è proprio in quest’ultimo campo dove la sua tecnica e la sua capacità di saper trasmettere all’ascoltatore quella vena emotiva anche nei passaggi più brutali esce fuori in maniera preponderante, riuscendo a mantenere un’enunciazione delle parole esemplare (tanto da rendere la comprensione delle singole frasi piuttosto facile, anche durante gli scream più viscerali).
Curiosa la scelta da parte della band di aver deciso di tirar fuori come singoli apripista, praticamente tutti i brani dalla carica energetica elevatissima dell’album ad eccezione di Everything Ends. Brani come Curse, Whiplash, Brain Dead (con forti derive punk/hardcore e scritta in collaborazione con i House Of Protection), Blackhole o la stessa Seeing Red sono di quanto più aggressivo la band abbia tirato fuori in questo platter e sono tutte state canzoni presentate in anteprima ai fan prima della release ufficiale. Certamente un modo per far capire sin da subito ai fan la direzione artistica di questo nuovo lavoro, anche se come già accentato, la restante metà di questo platter sa anche essere più melodica, addentrandosi in territori quasi da semi-ballad in alcuni rari casi.
Prendiamo come esempio la bella Chandelier posta in chiusura; in questo caso il pianoforte, sorretto da un’elettronica minimale e la voce di Sam coadiuvata da una sorta di effetto vocale “riverberato”, fa crescere il pathos della canzone riportandoci indietro alle composizioni grandiose e sinfoniche di For Those Who Wish To Exist, con tanto di assolo melodico di chitarra sul finale, mentre Sam trasforma la linea melodica che recita il titolo del brano in uno scream brutale, seguito da un breakdown quantomeno inaspettato in un brano del genere. Sicuramente un pezzo di chiusura d’effetto e che sa colpire le giuste corde emotive.
Elegy che apre il disco potrebbe sembrare dal suo incipit una di quelle classiche intro cha hanno puramente la funzione di sfociare nel brano successivo, ma che in realtà si rivela essere molto più di questo, per un pezzo che parte atmosferico ed elettronico prima di esplodere improvvisamente in una furia devastante, offrendo un cambio di stile improvviso ed assolutamente inaspettato.
Evil Eyes suona molto Deftones con quelle chitarre riverberate e va notato come l’assolo finale non sia di certo un trademark del tipico sound degli Architects, ma è un elemento che in questo disco rappresenta un cambiamento ben gradito.
Everything Ends è un brano che risulta abbastanza in linea con l’etichetta “Imagine Dragons Core”, per via di quella sua vena pop-metal ruffiana, iper-patinata e francamente dimenticabile e poco originale. Va detto che questo è un disco che suona iper-prodotto e molto “over the top”, mixato con un volume decisamente alto. Tutto abbastanza in linea con le produzioni metalcore moderne quindi e non molto diverso da un disco come Negative Spaces di Poppy uscito pochi mesi fa e che vedeva alla produzione lo stesso Jordan Fish.
A livelllo tematico la band ha sempre trovato nel corso della sua carriera un forte stimolo in una tipologia ben determinata di testi, da quelli politici, religiosi ma soprattutto quelli più legati all’ambiente e all’ambientalismo e per quanto un titolo come The Sky, The Earth & All Between possa far pensare a quest’ultimo topic, il disco appare più incentrato su tematiche personali, la comunicazione tra le persone (Whiplash), la salute mentale (Blackholes) e il rapporto con i fan e l’aspettativa delle persone in generale (Seeing Red). Non mancano tanti riferimenti a fenomeni atmosferici e naturali ma sempre come metafora per qualcos’altro, spesso proprio la salute mentale. (“I was swallowed by the storm clouds, hailstones on a glass house, there were diamonds in the air and the oxygen left my chest”- da Blackholes).
Un brano che abbiamo trovato interessante è senz’altro Judgement Day che vede la vocalist Britannica Amira Elfeky come guest per una canzone che parla dell’influenza del web nel mondo moderno. Sam Carter riflette su questo modo di vivere, in particolare pensando alle nuove generazioni che non hanno mai conosciuto un mondo alternativo, vedendo il web come una sorta di nuvola nera che “distilla” per noi tutto il male e la negatività del mondo attraverso un unico “veicolo”. Una visione pessimistica delle nuove tecnologie che prende vita attraverso metafore e simbolismi dal vibe apocalittico, quasi da “Giorno del Giudizio” appunto. Il pezzo prende vita attraverso delle sonorità industrial ed elettroniche, con un beat “up-tempo” e la voce di Amira che funziona molto bene nell’economia del pezzo grazie alla sua timbrica dark, enigmatica ma sensuale allo stesso tempo. Amira e Sam duettano in maniera convincente, per un brano che inonda l’ascoltatore con delle sonorità Mansoniane o anche alla Nine Inch Nails, per un pezzo che offre un’alternativa interessante a quanto proposto solitamente dagli Architects, soprattutto offrendo un cambio deciso di tipologia di brano rispetto al restante delle canzoni.
Broken Mirror suona come un pezzo un pochino telefonato, anche nel suo breakdown abbastanza prevedibile, uno di quei pezzi dove gli Architects si tuffano a capofitto nel loro lato più pop e melodico, senza che però ci sia un reale potenziale né nelle melodie portanti, né nelle idee complessive del pezzo e non basta di certo la produzione moderna, i beat elettronici e le vocals molto processate di Sam per rendere il brano più interessante.
In conclusione gli Architects dopo il dimenticabile The Classic Symptoms Of A Broken Spirit, tornano in carreggiata alla grande e pur non mostrando quel coraggio compositivo che avevano esibito in un disco come For Those Who Wish To Exist del 2021, riescono comunque a riavvicinarsi ad un suono diretto ma allo stesso tempo molto equilibrato, tra parti pesanti e distruttive, breakdown al cardiopalma e allo stesso tempo, inserti elettronici, industrial, venature pop e momenti melodici guidati dalla magnifica voce di Sam Carter. The Sky, The Earth & All Between è un disco che non inventa nulla, specialmente nel panorama del Metalcore moderno, con una produzione molto all’avanguardia e patinata ad opera del guru Jordan Fish, ma che mostra tutta la classe di una band assolutamente dominante in questo genere musicale. Forse i guizzi memorabili di un album come All Our Gods Have Abandoned Us sono svaniti per sempre con la tragica scomparsa di Tom (ex-chitarrista della band morto nel 2016 a causa di un cancro), ma non c’è dubbio sul fatto che il nuovo platter della band di Brighton offra una serie di pezzi davvero riuscitissimi che in alcuni casi si stanno già rivelando dei nuovi classici nella discografia del gruppo.