Recensione: The Slow Rust Of Forgotten Machiner

Di Roberto Gelmi - 20 Luglio 2017 - 10:00
The Slow Rust Of Forgotten Machinery
Band: The Tangent
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2017
Nazione:
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82

Nono studio album in nemmeno 15 anni d’attività: con The Slow Rust Of Forgotten Machinery (che vede la luce due anni dopo A Spark in the Aether) i britannici The Tangent continuano a macinare buona musica nel più schietto spirito neo prog. Tra le novità della nuova uscita da segnalare la presenza di due membri dei giovani e più che promettenti Maschine Luke Machin e Marie-Eve de Gaultier – e la collaborazione con Boff Whalley (fondatore dei Chumbawamba) e il DJ/produttore Matt Farrow. Confermati i giganti Jonas Reingold (The Flower Kings, Karmakanic) al basso (e contrabbasso) e Theo Travis ai fiati. Il buon Tillison, infine, è alle prese anche con le parti di batteria: incredibile dictu, ha anni di pratica anche con questo strumento. I The Tangent sono famosi anche per i loro artwork sempre curatissimi e anche questa volta confermano il loro trademark proponendo copertina e libretto a cura di Mark Buckingham, artista della blasonata DC Comics. Non stupisce nemmeno la tracklist, estremamente corta e con quattro suite (scusate se è poco). Il concept sotteso all’ora abbondante di minutaggio tratta delle iniquità del mondo d’oggi, soffermandosi sulle tristi condizioni dei rifugiati di guerra e il modo in cui l’Occidente se ne occupa, a partire dai media. Tema caldo e bruciante, che dipinge un pianeta diviso ancora tra Nord e Sud del mondo, in un dualismo che vede schierati su fronti opposti edonisti e miseri, i pochi e i molti.
L’opener “Two Rope Swings” ha un inizio in pianissimo che ricorda le tinte crepuscolari di The World That We Drive Through. La parti vocali di Marie-Eve de Gaultier donano un tocco di eterea ricercatezza, che unita ai fiati e al timbro caldo di Tillison regalano subito emozioni in piena tradizione The Tangent. È dal 2010, con Not As Good As The Book, che non si trovano più parti vocali femminili in un album di Tillison. A metà brano il basso di Reingold sciorina un ritmo indiavolato e il brano si anima in mille sfumature di synth, per poi chiudersi circolarmente in pianissimo. La produzione è pulita e priva di sbavature, si prospetta un album memorabile.
Dr. Livingstone (I Presume)” è il pezzo più falotico in scaletta. Dodici minuti strumentali che faranno la gioia di ogni progster, con momenti vicini ai Frost e altri tirati (si ascolti il settimo minuto) come mai sentiti in un disco dei The Tangent. Tillison si diverte alla batteria, i nuovi membri in line-up sono tecnicamente ineccepibili e s’integrano alla perfezione nell’alchimia della band.
Suite più lunga in tracklist, “Slow Rust” (in pratica una title-track) è una composizione ammaliante, ordinatamente caotica e intessuta di più vite che si susseguono, come la mute stagionali di un serpente dai riflessi iridescenti. Non convince, vero, il ritornello troppo vicino agli Yes che furono, ma è impossibile non lasciarsi trascinare dal recitato a metà brano (come se ci trovassimo in u brano dei compianti Beardfish). Venti minuti che scorrono in un baleno, il prog che non annoia è il modo migliore per riconciliarsi con l’eterno nemico Tempo.

The Sad Story Of Lead and Astatine” (La triste storia di Piombo e Astato) è un manifesto ambientalista, in giorni di cupo pessimismo per il futuro del Blue Planet cantato dai cugini TFK. La parte centrale strumentale è uno spettacolo pirotecnico unico, con altri influssi di matrice Yes e una assolo di batteria di Tillison (non un Minnemann, ma sa il fatto suo comunque). Musica divina e testi di denuncia, una “primavera silenziosa” che fa gioire e riflette al contempo. L’album si chiude con “A Few Steps Down The Wrong Road”, lungo brano con qualche parte non memorabile, complici le parti recitate che parlano di populismi beceri e attualità, ma complessivamente grandiosa come le altre canzoni brevemente descritte. C’è spazio anche per la citazione di un leitmotiv emozionante di musica d’arte, tratto dal quarto movimento (“Jupiter”) della suite orchestrale I pianeti di Gustave Holst.

In definitiva un platter davvero godibile e variegato a conferma della solidità dei The Tangent, che cambiano pelle ma restano sempre fautori d’un sound dalla grande riconoscibilità e originalità. La loro cifra stilistica resta l’incredibile capacità di alternare momenti vellutati e crepuscolari a crescendo fulminanti e sostenuti, lungo sentieri sonori dagli umori cangianti. Ci auguriamo che il sodalizio con i membri dei Maschine continui e attendiamo un decimo album di nuovo su livelli stellari. Per chi avrà la fortuna di vederli in sede live di spalla ai cugini svedesi Karmakanic si prospettano ottimi show.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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