Recensione: The Sombre Light of Isolation
Una volta c’erano i Cryptal Darkness, erano australiani e facevano doom gothic; ora ci sono i The Eternal, sono anch‘essi australiani ed il genere è simile, cosa c’è di diverso? Non solo il nome. Dopo alcuni anni dalla loro scomparsa, ri-nascono da se stessi col nuovo monicker e fanno centro al primo colpo con un “esordio” intelligente ed astuto, che rappresenta un’uscita decisamente positiva per il versante gothic doom.
Nuovo corso significa prima di tutto nuova impostazione, meno opprimente e pesantemente derivativa, che nel passato faceva dei defunti Cryptal Darkness una illustre succursale My Dying Bride. Questo volta lo stile fa decisamente l’occhiolino al versante gothic senza mai dimenticarsi del doom, anche se la sensazione è che sia la prima delle due attitudini a farla da padrona. Portavoce del rinnovamento, ed è proprio il caso di dirlo, è il cantante Mark John Kelson con la sua diversa interpretazione vocale, indovinata e sostanzialmente convincente, che ne dimostra le capacità e la versatilità su buoni livelli.
Siccome però il lupo perde il pelo ma non il vizio, anche in questo disco non mancano di rifarsi in maniera marcata a qualche insigne nome: sentendo track quali “Crimson Sacrifice” o l’accattivante “Down” è impossibile evitare di chiedersi se non si sta ascoltando Nick Holmes (quello “seconda giovinezza”). Anche se decisamente marcata, la somiglianza di cui sopra non mi ha mai infastidito realmente, anzi l’ho, il più delle volte, apprezzata in quanto la ricerca di varietà vocale è indiscutibile e lo dimostra il continuo passaggio tra tonalità medie e basse, un sussurrato, uno scream fortemente distorto, qualche sporadica incursione growl ed un parlato morboso in simil “Steele Style” (il cantante dei Type ‘O Negative).
Come accennato, si tratta di un disco intelligente che pesca spunti sparsi dal versante tetro e più noto del panorama musicale estremo, senza però limitarsi a farvi il verso ma citandolo, come nel caso dell’assolo iniziale della title track, che mi ha fatto pensare ai Katatonia di Brave Murder Day. Il tutto è correttamente amalgamato grazie al songwriting ben congegnato e alle capacità melodico espressive dei musicisti che danno vita a composizioni tutto tranne che monolitiche, ricche di atmosfere variegate e di episodi,
soprattutto nei pezzi più lunghi che offrono maggiori possibilità di studio. The Sombre Light of Isolation sa essere serio con la forza strisciante ed inquietante del corpo principale di “The Eternal”; drammatico e funereo come in “Black Serenity”, dalla ritmica lenta e la sua melodia lacrimevole che apre e chiude lo svolgimento; ancora oscuro nella finale “All Hope Lost”, My Dying Bride oriented fino al midollo.
A mio avviso, c’è anche un lato un po’ astuto o furbo, termini che potrebbero essere intesi male, ma che vanno presi nella loro accezione positiva, perché riferiti al saper adottare alcune scelte stilistiche o compositive che rendono The Sombre Light of Isolation gradevole e facile da ascoltare, adatto a qualche palato in più rispetto al target teorico, malgrado i suoi 67 minuti. Una cosa che colpisce sicuramente è la scioltezza, la facilità di ascolto e la riconoscibilità di ogni pezzo caratterizzato da un marker che può essere un refrain, la timbrica vocale o uno specifico passaggio delle tastiere praticamente onnipresenti. I The Eternal, quando vogliono, sanno essere aggressivi ma orecchiabili, nascondere all’interno dei pezzi delle melodie “catchy” grazie ai numerosi assoli, per arrivare perfino a dare il desiderio di cantare i ritornelli azzeccatissimi nei quali non manca l’apporto di una voce femminile. Penso sia chiara l’idea degli australiani di non indugiare eccessivamente su specifici momenti (per non scontentare nessuno in particolare), ad esempio sugli stacchi più ombrosi o cadenzati che poco dopo vengono sistematicamente stemperati dalle aperture melodiche che riportano la luce dove era venuta meno.
Se ascoltando “Remembrance Scars” dovreste trovarvi a pensare che tira un’aria familiare, ad esempio un sentore di Anathema prima maniera, non vi siete sbagliati perché (purtroppo per me che non l’ho mai apprezzato) c’è lo zampino di Darren White, fondamentale personaggio storico dell’universo gothic che contribuisce con i testi ed il cantato a dare un tocco in più ad una song che si stacca chiaramente dal modello generale.
L’impressione finale è sicuramente entusiastica, non mancano gli ingredienti e le motivazioni per apprezzare più d’uno degli spunti offerti. Avanzo in ogni caso qualche riserva sul coraggio di osare, che qui latita e penalizza questo disco che mi sembra più che ben realizzato, melodico e piacevolissimo ma senza quel quid da renderlo qualcosa di più di quello che è: un disco notevole ma distante dall’immortalità. Forse chiedo sempre troppo ai furono Cryptal Darkness?