Recensione: The Sovereign
Tenendo fede al loro nome, i Ferocity giungono dalla Danimarca per assaltare l’Europa e non solo con un death metal che definire violentissimo è dire poco.
Seppur attiva dal 1995, la band non brilla per prolificità, giacché oltre a tre demo (“To Cross The Sunless Waters”, 2000; “Immigrant Species”, 2001; “Demo 2005”, 2005) si possono contare solo due full-length: “Cocoon Of Denial”, del 2009, e “The Sovereign”, appena uscito per la Deepsend Records.
L’album mostra già dal disegno di copertina un tono cupo e freddo, rimandando a visioni apocalittiche tese a disegnare un futuro di morte e disperazione. Un tema non particolarmente originale, a dire il vero, ma comunque sempre attuale e dal sicuro impatto emotivo se non altro per la costante tendenza alla belligeranza fratricida dimostrata dal genere umano.
Tornando alla musica, i Ferocity riescono a sviscerare uno stile che, sebbene ancorato con decisione agli stilemi fondamentali del death, lascia intravedere una personalità degna di menzione; dato atto che non sono poi molti gli ensemble accumunabili ai Nostri per timbri e registri. Forse si può scovare qualche linea di vicinanza al polish death metal, magari citando i sempre troppo ignorati Crionics, ma anche concentrando l’ascolto sui passaggi più stretti di “The Sovereign” non spunta granché di noto. Nobilitando, pertanto, il trademark di una proposta artistica senza compromessi.
La quale, per inciso, deve il salto di qualità al nuovo batterista Nikolaj Kjærgaard, capace di districarsi con sicurezza attraverso la varietà di ritmi che il moderno death metal esige dai suoi epigoni. Manifestando con ciò un’indole distruttiva in occasione dei numerosi assalti ove l’arma principale sono i blast-beats, assolutamente terremotanti e ferocemente chiusi su se stessi come a far quadrato per compattare il più possibile il suono e quindi ad aumentare a dismisura la sua forza d’impatto. Ottima, pure, la prova di Kasper Wendelboe al microfono. Forse un po’ troppo rigido, il growling di Wendelboe possiede ad ogni modo una rara dose di stentorea aggressività, levando letteralmente la pelle di dosso a chi ascolta. Anche i chitarristi svolgono bene il loro cruento lavoro, sommando a riff secchi e convulsi soli laceranti di evidente estrazione heavy o, perlomeno, thrash. Lars Ole Bøgel, il bassista, invece, fa riflettere su una produzione eccessivamente (anche se volutamente) glaciale, poiché non è facile distinguere il lavoro dell’ascia a quattro corde dal resto della strumentazione.
Glaciale come il breve incipit ambient di “… And The Rest Is Silence”, song raffigurabile come una mazza chiodata che si abbatte sulla schiena. La sensazione di claustrofobia emanata dal drumming di Kjærgaard sommata a quella di paura dovuta al bestiale growling di Wendelboe formano quel valore aggiunto del sound dei Ferocity che, come più sopra accennato, ne caratterizzano marcatamente le forme. Proprio l’opener, però, evidenza una qualità del songwriting appena discreta e non certo eccezionale in virtù del suo status – almeno a parere di chi scrive – di migliore episodio del lotto. Ci sono altri brani degni di menzione, questo è certo, come per esempio la tenebrosa “Son Of Sam” o la devastante title-track, ma nel suo complesso il platter manca del quid necessario per lasciare il segno in maniera indelebile. La stessa “The Sovereign” disegna degli orpelli chitarristici melodicamente non indifferenti, ma che sanno di dejà-vu lontano un miglio. Non sfigura nemmeno “Blind Disciple”, inoltre, quale altro segmento pennellato di zolfo, avvolto in un’invernale nebbiolina, tormentato dall’inequivocabile vocazione alla brutalità posseduta dal combo di Aalborg.
Forse poco, nel complesso, per dare a “The Sovereign” quella spinta che l’indubbio carattere dei Ferocity meriterebbe.
Rischio dimenticatoio, pertanto.
Daniele “dani66” D’Adamo
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