Recensione: The Spectre Within

Di HolyImpaler - 16 Aprile 2006 - 0:00
The Spectre Within
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Anno: 1985
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88

1985. Dopo aver esordito l’anno precedente con un ottimo disco, “Night on Brocken”, che se dalla sua poteva contare sulla presenza di tre-quattro perle di valore assoluto (su tutte a mio modesto parere l’angosciante accoppiata finale “Damnation”-“Soldier Boy”) e di uno straordinario lavoro in fase di songwriting (eccezionalmente maturo in relazione alla giovane età dei cinque del Connecticut), risultava tuttavia caratterizzato da uno stile pesantemente derivativo e palesemente ancorato al sound e alle progressioni epiche degli Iron Maiden del gioiello “Piece of Mind” uscito nello stesso 1984 (prova ne è anche la pregevole cover di “Flight of Icarus” presente come bonus track nella ristampa di “Night on Brocken”, nella quale un fantastico John Arch non fatica ad emulare alla perfezione Bruce Dickinson), I Fates Warning danno alle stampe una sophomore release, “The Spectre Within”, che di diritto li proietta nell’olimpio di certo Heavy Metal americano dalle tinte progressive (ma attenzione, niente a che vedere con il progressive metal che, mi permetto una citazione di un altro grande fan dei FW, il grande Giandomenico Cossu, “è tutta una questione degli anni ’90”) accanto ad incredibili altre formazioni come i Queensryche dell’accoppiata “ep di debutto”-“The Warning” ed i Crimson Glory. Già perché con questo disco gli ormai maturi (anche se anagraficamente sarebbe difficile da credere) Fates Warning realizzano un gioiello di rara bellezza, di indiscutibile classe cristallina, scevro dai limiti che caratterizzavano il debut album e carico di quel pathos, di quelle atmosfere sognanti, inquietanti, al di fuori dello spazio e del tempo che nel disco successivo ( “Awaken the Guardian”, che porrà fine alla fantastica parabola artistica degli Arch’s Fates Warning) risulteranno addirittura suscettibili di ulteriori miglioramenti fino al raggiungimento della perfezione. “The Spectre Within” non raggiunge tale perfezione, ci sono ancora alcuni passaggi (ma assolutamente sparuti) un pochino impersonali e macchinosi, ma la rasenta sicuramente.

La formazione è la stessa dell’esordio: Steve Zimmerman alla batteria, Joe Dibiase al basso, il magico duo Jim Matheos – Victor Arduini (per lui si tratta dell’ultimo disco nella band, in quanto a partire da ATG sarà sostituito dal comunque egregio Frank “X” Aresti) ad intessere ora vorticosi riffs ora delicati arpeggi e il vertiginoso John Arch alla voce, uno dei pochi cantanti capaci di sopperire ad una oggettiva carenza di tecnica (mitigata però da straordinarie doti naturali) con un’interpretazione vocale sempre originale ed intensissima (“A vocalist that sings every single note with his voice AND his heart” dice il giornalista Boris Kaiser nel retro copertina della ristampa del disco in questione) e con un lavoro in fase di songwriting a dir poco eccezionale: non fatico a definire Arch un genio compositivo, non posso non rimanere estasiato e spiazzato di fronte a testi enigmatici, simbolici come quello di “The Apparition” o di fronte a quel grido disperato che è la conclusiva “Epitaph”. Ma andiamo con ordine, visto che tralasciare anche solo una delle 7 perle che compongono questo album suonerebbe quasi come un (musicalmente parlando) peccato mortale.

“The Spectre Within” si apre immediatamente con una delle mie openers preferite, “Traveler in Time”: un solenne intro corredato da un suono di campane lascia spazio ad un riffing in tipico Fates Warning style, ricco di cambi di tempo e tinte vagamente progressive. Al di sopra del preciso muro sonoro elaborato impeccabilmente dagli altri componenti si staglia la voce di Arch, impegnata ad interpretare in maniera sempre fortemente personale ed originale liriche enigmatiche, la cui interpretazione e comprensione vengono lasciate interamente alla riflessione dell’ascoltatore. Dopo un pregevole intermezzo cadenzato, l’ultima strofa e l’ultimo ritornello, tanto semplice quanto d’impatto, grazie anche agli splendidi vocalizzi ricamati da Arch, lasciano spazio al secondo brano del lotto, la bellissima “Orphan Gypsy”: un pregevole assolo iniziale, sorretto da un monumentale tappeto ritmico introduce una strofa caratterizzata, oltre che dal bel riffing del duo Matheos-Arduini, da un egregio lavoro dietro le pelli di Zimmerman e da un songwriting impressionante, capace di creare versi dotati di un’estrema musicalità, di un’accurata scelta dei vocaboli più adatti ed evocativi e da una fluidità che in alcuni punti mi ricorda flussi di coscienza di Joyceiana memoria (ovviamente con le dovute grandissime differenze, ci mancherebbe!). Il tutto poi impreziosito dalla monumentale prova vocale di John Arch, la cui interpretazione trascende qualsiasi descrizione a parole. Bello anche il suadente ritornello.
Con la successiva “Without a Trace” i cinque Pirates of the Underground del Connecticut dimostrano di avere assolutamente ben assimilato la lezione degli Iron Maiden epici e galoppanti di “Piece of Mind”, dei quali ripropongono le coordinate stilistiche con maturità e personalità invidiabili. Belle strofe caratterizzate da una grande musicalità (“A work of art so neatly done homicide/ Cannot decide was it accident was it suicide”) lasciano spazio ad un bellissimo ritornello dotato di una complessità superiore ai precedenti. La successiva “Pirates of the Underground” può a buon diritto essere considerata il manifesto della band: la song è assolutamente priva di ritornello e dotata di moltissimi cambi di tempo (che determinano un’alternanza di riffs cadenzati e monolitici e parti maggiormente vorticose e dinamiche) che ai primi ascolti ne rendono alquanto complicata l’assimilazione. Ancora una volta i testi risultano di non facile interpretazione e dotati di un fascino arcano anche grazie (scusate la ripetitività) ad un’impeccabile prova vocale. E’ a questo punto però che il disco consegna agli ascoltatori una delle più belle canzoni mai composte nella storia, ormai più che ventennale, dell’Heavy Metal, che risponde al nome di “The Apparition”, più che un semplice componimento musicale: l’inizio è affidato ad un lento riff cadenzato implementato dai raffinati vocalizzi tipicamente “Archiani” che ben presto sfocia in una concitata (grazie anche ad un’inquieta interpretazione vocale) strofa terzinata che lascia spazio ad un ritornello che si configura come un accorata richiesta di delucidazioni( “Take me away, take me away/I wanna know what’s deep within”). Ma è in seguito alla seconda splendida accoppiata strofa-ritornello che la song sprigiona tutto il suo fascino arcano e la sua enigmatica magia: dopo l’avvertimento di una minacciosa voce di tuono dalle reminescenze bibliche (“Turn back, tabernacle is forbidden”), la curiosità di John Arch (“I want to know”) apre la strada ad uno dei passaggi più emozionanti ed emotivamente toccanti, nonché uno dei vertici lirici della nostra musica preferita:

“Flame is burning center of a fountain yearning, water springs eternal, spiritual water physical fire.
Above the center is sky, cold cold neverness, just vastness filled with stars upon stars.
In the four corners of life are the golden mirrors reflecting what you are and what you are to be.
In the first is a Youngman white dove in his hand, in a second is a warrior in armour, in the third is An old man gold watch in his hand, fourth and last, no reflection at all”

Penso che il passaggio (pura poesia a mio parere) parli per sè.
La successiva canzone, “Kyrie Eleison”, non regge il confronto con la precedente (d’altronde sono veramente poche le canzoni in grado di lottare ad armi pari con “The Apparition”), e in verità nemmeno con le atre song del lotto, pur essendo comunque gradevole. Intendiamoci, la canzone in questione non è brutta, assolutamente, tuttavia se paragonata alla genialità di altri componimenti risulta “solamente” normale, in virtù di una struttura più canonica e meno originale (non che questo sia necessariamente un difetto eh!). L’accattivante bridge e il travolgente ritornello ne rendono comunque più che piacevole l’ascolto, per poi lasciare con reverenza la scena a quel lancinante grido di dolore posto a chiusura del platter che risponde al nome di “Epitaph”: un macabro arpeggio accompagna le strazianti lyrics di Arch, attraverso le quali il singer esprime la rabbia dettata dall’impossibilità di comunicare e dalla solitudine (“Isolation freezer my life, coldness grips my heart/ Trapped within a world, a world apart./ Desolate am I a tempest raging silently/ lost a barren soul adrift at sea”), dalla completa sfiducia in un’umanità capace solamente di mentire (“A popular torrent of lies upon lies”). La canzone assume poi un andamento più rapido e giocato su riffs fortemente dinamici, che accompagnano una serie di splendide metafore che ben esprimono la sofferenza e la mancanza di stimoli (“Torn between life and death inertia fills my soul/ No will to ben or pride to care the reaper takes his toll”) che portano Arch a negare qualsiasi paura della morte (“I’m not afraid to die”). La fine è affidata ad una visionaria immagine simbolica che pare negare alla vita qualsiasi senso o significato.

Con questo monumentale componimento si conclude quello che, assieme al suo successore, è uno dei miei Heavy Metal albums preferiti in assoluto, impreziosito nella sua versione rimasterizzata da succulente bonus tracks tra le quali una pregevole (anche se dotata di una qualità amatoriale) versione live di “Pirates of the Underground”.
Per concludere, una breve riflessione sulla carriera dei Fates Warning: anzi tutto non voglio assolutamente mettere in dubbio la grandezza dei Fates Warning del post-Arch che, pur non incarnando i miei gusti musicali, hanno innegabilmente scritto pagine memorabili della storia della musica. Altrettanto tuttavia ritengo abbiano fatto i FW ottantiani, e mi sento di dissentire in maniera convinta nei confronti di coloro i quali affermano che i veri Fates Warning, quelli più maturi e personali, siano quelli di Alder. I cinque di Hartford infatti con i loro primi tre dischi hanno creato un proprio personalissimo stile d’esecuzione (seppur, per forza di cose, influenzato dai maestri del genere), rimanendo nell’ambito circoscritto dell’Heavy metal americano, che li ha resi assolutamente unici e li ha portati a partorire dei capolavori (questo “The Spectre Within” e “Awaken the Guardian”) che non hanno niente da invidiare ai successivi dischi né dal punto di vista della qualità, né da quello dell’originalità né tanto meno da quello della maturità. I testi di John Arch poi, a mio parere non temono paragone alcuno. Se quindi siete degli amanti dell’Heavy Metal a stelle e striscie, ma anche solo amanti della buona musica, sognante ed evocatrice, non esitate a far entrare nella vostra discoteca questa piccola grande perla, spesso purtroppo snobbata (come del resto il suo predecessore e, seppur in maniera minore, il suo successore) a torto.

John Arch – Vocals
Jim Matheos – Lead guitars
Victor Arduini – Lead guitars
Joe Dibiase – Bass
Steve Zimmerman – Drums

Tracklist:

1. Traveler in Time

2. Orphan Gypsy

3. Without a Trace

4. Pirates of the Underground
5. The Apparition
6. Kyrie Eleison
7. Epitaph

Bonus tracks della versione rimasterizzata:

8. Radio Underground – Live Underground
9. The Apparition – Rehearsal 1985
10. Kyrie Eleison – “Dickie” Demo 1985
11. Epitaph – “Dickie” Demo 1985

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