Recensione: The Spider s Lullabye
Alla prova dei fatti, uno dei dischi meno seguiti e chiaccherati del grande e controverso King Diamond in versione solista è sicuramente “The Spider’s Lullabye”. Uscito nel 1995 sotto la Metal Blade, TSL esce come primo disco solista del Re Diamante dopo 5 anni di inattività, inattività causata dal ritorno del singer al timone dei Mercyful Fate. Ad accompagnare King in questa sua produzione abbiamo una lineup rinnovata per i 3/5 rispetto a quella che nel 1990 aveva partecipato alla realizzazione di “The Eye”. L’altro sopravvissuto allo scisma è ovviamente il chitarrista Andy Larocque, che torna all’ovile fortificato dall’esperienza coi Death di “Individual Trough Patterns”. Ad accompagnare il re Diamante abbiamo Herb Simonsen alla seconda chitarra, Chris Estes al basso e Darrin Anthony alla batteria. L’album presenta un’altra grande novità rispetto ai lavori passati : non è un concept, non del tutto. Se è infatti vero che le song dalla 7 alla 10 sono effettivamente collegate fra di loro e narrano la storia di Harry, un ragazzo con una grande fobia per i ragni che verrà ucciso da un folle psichiatra e dalle sue assurde cure terapeutiche, è altrettanto vero che le prime 6 canzoni non sono legate fra di loro ma indipendenti, fatto che non accadeva ad un disco dei King Diamond dai tempi lontani di “Fatal Portrait”, dunque quasi un decennio. Nonostante questa parziale virata il risultato complessivo, che comunque non raggiunge i capolavori di fine anni ottanta, è tutto sommato buono. I 5 riescono come sempre a dimostrare di sapersela cavare egregiamente nel loro campo di competenza, e anche l’affiatamento reciproco non sembra risentire del lustro di inattività insieme o dei nuovi arrivi. Il sound è più moderno di quello dei precedenti album, tuttavia il risultato complessivo, che a prima vista potrebbe far storcere il naso ai puristi, è più che discreto, non macchiando le caratteristiche atmosfere alle quali King ci ha abituato.
La prima traccia, titolata “From the Other Side” a dire il vero non lascia un ricordo strabordante. È ottimo il riff di apertura, che dà chiara indicazione del sound del disco, il ritmo è sostenuto, ma a lungo andare ci si perde nello scorrere della song. Solo sufficiente il refrain, ottime invece le tastiere sullo sfondo e l’assolo di un favoloso Larocque, buono infine l’uso della voce, che si alterna tono normale e uno strano falsetto, non quello dei tempi d’oro, un po’ più “metallizzato”, ma comunque non sgradevole. Roboante anche l’inizio della buona “Killer”, le quali tastiere, quando usate, fanno calare subito l’immaginazione ad atmosfere non poco gotiche. Il riff è meno incisivo della canzone precedente, e anche qui si ha una sensazione di smarrimento dopo un po’ di tempo, ma il risultato complessivo è comunque discreto, lasciando tracce di classe innata. Il cd fa un bel salto di qualità con quella che forse è la miglior opera di “The Spider’s Lullabye”, ovvero “The Poltergeist”. L’intro sacrale è splendida, carica di pathos e mistero, e la voce asseconda pienamente il suonato che però ben presto, ad un acutissimo “Speak to me”, torna ad essere quello bruciante e crudo di sempre. Mid tempo dal grande riff, che si intreccia alle melodie di tastiera, qui davvero al loro massimo. Ottimo assolo, di una pulizia sonora sorprendente. In sostanza track che musicalmente parlando starebbe nella fascia medio alta di un “Them” (anche se non mi piace fare paragoni), figurarsi qui su “The Spider’s Lullaby” l’effetto che può fare. Il livello si mantiene su discreti standard anche con la successiva “Dreams”, che anche se un po’ paranoica (il vero obiettivo della canzone?) la dice lunga sulle capacità esecutive dei membri dei King Diamond (salvo forse il basso un po’ in ombra). Gran chitarra ritmica, incredibile nelle parti tirate quella elettrica, ottimo cantato e un tratto molto melodico (del tutto inaspettato, con gran cambio di tempo) al centro della song sono quindi gli ingredienti principali di una positiva Dreams, seguita a sua volta dall’ottima “Moonlight”. Le linee musicali sono anche qui molto melodiche e pulite (keyboards in evidenza e che danno una gran mano da questo punto di vista), abbiamo un basso stavolta in primo piano, un gran giro portante di chitarra e un cantato quasi interamente falsettato, come ai vecchi tempi (forse la voce non è così acuta ma poco ci manca). Sicuramente non siamo di fronte al pezzo migliore del disco, rimane comunque uno dei più lineari, fini e piacevoli da ascoltare. Ad una canzone fra le più melodiche segue invece quella probabilmente più dura e in assoluto, “Six Feet Under”. Qui non vi sono particolari colpi di genio, ma sonorità che richiamano molto da vicino quelle delle passate produzioni, una vera e propria mazzata, tra l’altro molto veloce, ma che comunque mantiene parte della pulizia strumentale fin qui evidenziata da “The Spider’s Lullabye”. Con six feet under finiscono i pezzi “indipendenti”, e da ora in poi ci avventuriamo nei lidi popolati dal già citato Harry, lidi che musicalmente parlando chiudono alla grande, in netto salendo, un cd che fino ad ora era sì buono, ma abbastanza sotto lo standard di King Diamond. La grande title track, la quale intro arpeggiata sembra uscire (Kim Bendix Petersen docet) da un film dell’orrore, ci introduce al mondo di un ragazzo con una fobia per i ragni. Li vede ovunque, e ogni volta che li vede ci sta malissimo. Il riff che segue l’intro è bassissimo, ma dà la carica e diffonde un’estrema aria di malvagità, sentire per credere. Harry decide quindi di rivolgersi a uno psichiatra, che nell’ottima e simile alla precedente “Eastmann’s Cure” accoglie Harry e lo sottopone, volta dopo volta, a cure ed espedienti assurdi per vincere le sue paure, come nei più casi classici dei dottori pazzi che tanto spopolano al cinema. Simile come già accennato alla titletrack, “Eastmann’s Cure” mantiene la dose di potenza necessaria ad ogni fan del re diamante, notevoli cambi di tempo che alternano sfuriate di chitarre a tracci melodici, ma difetta forse del carisma posseduto dalla titletrack. Cambiamo scenario e passiamo alla “Room 17”, dove lo psichiatra continua a sottoporre Harry alle cose più assurde, cose che purtroppo, anziché guarirlo, lo stroncano. Brano lungo, molto melodico, ma che comunque unisce alla melodia una gran dose di oscurità e durezza, Room 17 presenta delle tastiere che dominano su tutti gli altri strumenti e creano un magico intreccio con le chitarre, intreccio che stavolta fa sì perdere l’ascoltatore, ma per ipnotismo, non certo per noia. Siamo alla fine, fine che arriva con la tappa finale dello sventurato Harry, ovvero “To The Morgue”. L’atmosfera è proprio quella classica di un obitorio e la canzone asseconda perfettamente l’ambiente nella quale è ambientata. Ancora grandi guitars, voce ispiratissima e, alla prova del nove, una gran song, finiscono forse l’album più strano di King Diamond, iniziato così così, con buoni spunti e poco altro, per poi salire decisamente di tono quando ha abbracciato la natura vera dei dischi del Re Diamante, ovvero il concept. Divido quindi in 2 il voto dell’album, dando un 74 complessivo alle prime 6 tracks, e un 83 alle ultime quattro. Fate una media pesata e ottenete il mio voto, che comunque testimonia un buon ritorno sulle scene.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
- From the Other Side
- Killer
- The Poltergeist
- Dreams
- Moonlight
- Six Feet Under
- The Spider’s Lullabye
- Eastmann’s Cure
- Room 17
- To The Morgue