Recensione: The Spin

Di Stefano Usardi - 7 Aprile 2025 - 10:00
The Spin
Band: Messa
Etichetta: Metal Blade
Genere: Doom  Rock 
Anno: 2025
Nazione:
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85

I veneti Messa sono attivi da una decina d’anni, diligentemente messi a frutto nella costruzione di una rinomanza impeccabile grazie alla pubblicazione di tre lavori, uno più bello dell’altro. Forse però dovrei dire quattro lavori, dato che tra qualche giorno, a tre anni dall’ottimo “Close”, i nostri pubblicheranno via Metal Blade la loro nuova gemma: “The Spin”. Bene, ora che ho spudoratamente scoperto le carte così, in prima mano, possiamo metterci comodi per parlare del resto. Prima di tutto, un minimo di contesto per chi non conoscesse il quartetto di Bassano del Grappa: partita da un doom tradizionale e cavernoso fatto di tempi scanditi e toni cupi e malinconici, la ricetta dei nostri si è via via screziata di elementi rock, jazz, blues e progressive, arrivando infine al qui presente “The Spin” che, zitto zitto, fa un altro passetto in avanti. Per stessa ammissione del gruppo, infatti, all’amalgama fin qui descritto i nostri aggiungono drappeggi che richiamano volutamente la darkwave delle origini e la scena goth rock dei primi anni ’80. Il tutto, ovviamente, filtrato dalla personalità del quartetto, che ricompone queste schegge musicali policrome e apparentemente distanti in un tessuto vellutato, stiloso ed elegante, definito dai veneti Scarlet Doom. La padronanza con cui i Messa stratificano la materia musicale, dosando ogni ingrediente con gusto e levando il grasso superfluo per ottenere un unicum ricercato ma corposo, è come sempre degna di nota e consente ai nostri di confezionare un prodotto sofisticato ma scorrevole, a suo modo minimale ma non per questo privo di profondità o di una plumbea grandeur. “The Spin” ancheggia sinuosa e malinconica su un terreno frastagliato, erigendo architetture multiformi in cui l’elettronica dei sintetizzatori si intreccia a melodie setose, frustate rombanti e atmosfere fumose anni ’20, giocando con i riverberi e una strumentazione vintage per ottenere una rotondità avvolgente e confortevole. Una trama sonora, questa, che diventa terreno fertile per le linee vocali di Sara, vera e propria sirena che, in base alle necessità del pezzo (dettate da testi riguardanti annichilimento dell’ego, rinuncia, insicurezza, aspettative disattese, auto sabotaggio o amori maledetti) giocherella con toni languidi, distanti, sofferti, indolenti e declamatori.

Void Meridian” apre le danze su una melodia dimessa ed effettata che sostiene una voce languida. La traccia guadagna corpo, mettendo in evidenza una base portante che tanto profuma di Sisters of Mercy e una voce divenuta metallica, fredda e distante. L’ispessimento durante l’assolo aggiunge dinamicità e sostanza, per poi sfumare in uno squarcio melodico più sentito che spalanca le porte alla successiva “At Races”. Anche qui l’atmosfera è languidamente goth rock, scandita da ritmi quadrati e punteggiata da melodie policrome, tra rallentamenti ammiccanti e veloci artigliate. Nella pausa centrale si insinuano note inquiete, velate di un’aspettativa suadente ma non priva di allarme che guadagna un nerbo differente, carico di pathos, per recuperare il suo fare languido nel finale. L’attacco di “Fire on the Roof” lascia presagire un pezzo synth, che però esplode con l’arrivo di chitarre arcigne e una sezione ritmica cavernosa. Il pezzo prosegue così, mescolando le sue due anime – quella stilosa e quella rombante – consentendo a Sara di tenere tutti in riga. Anche qui l’assolo si carica di arroganza blueseggiante, per poi cedere terreno a una rinfrescante carica in chiusura. Le note tranquille di “Immolation” sembrano messe lì apposta per stemperare l’increspatura appena passata con toni dimessi, compassati, intimi. Le melodie si mantengono rilassate e pacifiche fino all’intromissione degli strumenti elettrici, che spezzano l’incanto con un assolo movimentato che poi si sostituisce alla melodia iniziale, portandola avanti con un fare più determinato fino alla conclusione del pezzo, nuovamente soffusa. È giunto il momento di “The Dress”, che dopo una partenza incombente si adagia su un ritmo dimesso e compassato per sostenere i toni languidi e delicati di Sara, che durante l’improvviso ispessimento si fanno pieni e squillanti senza perdere il loro fare ammaliante. Il gruppo semina un’inquietudine latente grazie a una chitarra guardinga che funge da contrappunto alla voce, serpeggiando tra segmenti introspettivi e sporadici indurimenti declamatori. La pausa centrale si colora di toni crepuscolari, jazzati, fumosi, benedetti dall’intromissione di tromba che prende il pezzo e se lo porta via, coronando una digressione di gran classe interrotta di colpo da un riff inquieto. La chitarra prende corpo rapidamente, insinuando una tensione sempre maggiore che esplode nuovamente nei toni crepuscolari già sentiti, stavolta carichi di pathos e di toni caldi per accompagnare l’ascoltatore ad un finale sontuoso. Neanche il tempo di riprendere fiato che arriva l’arpeggio blues di “Reveal” a spiazzarmi col suo piglio rurale. In breve il pezzo si avvolge intorno ad una seconda melodia, che in un attimo si carica a pallettoni e deflagra in una raffica cafonissima e tempestosa. Dopo questa sfuriata imprevista la canzone riprende, sfruttandone la carica come base portante e con la verve isterica del gruppo tenuta a bada da una voce squillante ed imperiosa. Il segmento successivo, meno frenetico, si fa smargiasso, mantenendo i ritmi tesi ma pompando testosterone rendendo la traccia una sorta di valvola di sfogo del lavoro, in cui i nostri apparentemente concentrano la rabbia a discapito della ricercatezza ma senza perdere mai il controllo sul timone. Una melodia effettata introduce la conclusiva “Thicker Blood”, sostenendo la voce languida e dimessa di Sara. La sveglia arriva al minuto e ventidue, con una sfuriata che dona corpo al pezzo trasformandolo, per un breve momento, in una marcia scandita e possente prima di tornare all’indolenza iniziale. Lo scherzetto si ripete poco dopo, creando un vortice sonoro sferzante ma nel cui rombo si percepiscono ancora linee vocali suadenti, come sirene in mezzo a un temporale; la furia sonora si ricompone in un passaggio più squadrato, corposo, che sfuma in una sezione in cui enfasi e tensione si contendono l’attenzione senza mai sopravanzarsi, mantenendo costantemente un equilibrio sempre vicino al punto di rottura che deraglia nelle sporadiche urla del finale e si chiude in un arpeggio sfinito, morente, ponendo il sigillo su un lavoro magnifico.

The Spin” non si limita a confermare quanto di buono fatto dal gruppo, ma rilancia con una materia musicale in continua evoluzione, pronta a metabolizzare nuove sollecitazioni per farle proprie. I Messa esibiscono personalità e classe in fase di scrittura, un gusto notevole per melodie e arrangiamenti e la volontà di mettersi alla prova ancora una volta e confezionano un album coinvolgente, bilanciato ed ammaliante. Serve altro?

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