Recensione: The Star
Quarto album in carriera, per i Wormwood, intitolato semplicemente “The Star”. A tale sobrietà si contrappone, giusto dirlo subito, una consistente e massiccia dose di black metal, quasi da farne un’abbuffata.
Bene affermare immediatamente, anche, che “The Star” non sia certamente un disco rivoluzionario, contenente nel suo DNA semi di evoluzione o progressione che stravolgano dettami saldi, sicuri e rodati da anni e anni di esperienza. La formazione svedese è composta da musicisti di tutto rispetto, altamente professionisti, dotati di quel qualcosa in più di indefinibile rispetto ai colleghi che non appartengano alla penisola scandinava.
Strano a dirsi ma è così. Si tratta evidentemente di una misteriosa quanto ancora inesplorata naturalezza nel comporre musica estrema, soprattutto black metal, con un’innata profondità raramente rinvenibile altrove. E, ovviamente, i Wormwood non sfuggono dalle maglie di ciò che, ormai, si può anche chiamare assioma.
Essi, fra i tanti sottogeneri del black, prediligono un approccio melodico alla questione, con un retrogusto folk che dona al sound un carattere deciso, forte, riconoscibile fra i tanti, praticamente perfetto nel fungere da metro campione del melodic black metal. Ricco di armonia e ricercatezza di soluzioni non elementari nell’ambito del songwriting, questi sviluppato da modelli di base elementari per raggiungere uno spessore e una completezza di alto livello qualitativo.
Eh sì, perché anche nella ricerca di melodie da inserire nei vari segmenti che compongono una canzone di matrice rock (intro, strofa, ponte, strofa, ritornello, ecc.), si nota una rilevante predisposizione sì da rendere praticamente tutto al meglio. Chiaramente non si tratta di melodie di facile presa, da supermercato, per intendersi, quanto di attimi di intensa visionarietà, scatenata nella mente dalla sequenza di note che, soprattutto quelle delle chitarre, esprimono il dono di essere in grado addirittura di commuovere per l’intenso feeling restituito dalle canzoni stesse.
Oltre alle chitarre, poste su alte vette per ciò che riguarda sia la parte ritmica, sia quella solista, assolutamente irreprensibili nello svolgere il proprio lavoro, ci sono le tastiere dello stesso axe-man Tobias Rydsheim. Onnipresenti, esse fungono da sterminato tappeto su cui vergare il resto del sound che, chiaramente, senza, non può avere una totale continuità. Così facendo, invece, si crea uno stile pieno di musica, senza buchi, senza cali di tensione, senza spazi vuoti. Come un enorme tavola galleggiante priva di limiti dimensionali su cui erigere la struttura visibile anzi più udibile del disco.
Nine, con il suo roco screaming, dal tono interessante per via (di nuovo) di una congenita naturalezza nel disegnare proprie linee vocali, accompagna senza strappi i compagni nel viaggio da ‘Stjärnfall’ a ‘Ro’, compreso i marosi che ribollono quando il ritmo si alza sino a oltrepassare la barriera dei blast-beats (‘Suffer Existence’). A tal proposito, si può rilevare tale viaggio è scandito da tappe piuttosto lunghe, con le citate suite a troneggiare su di esse.
C’è talmente tanta musica, in “The Star”, che occorre una rilevante quantità di tempo per prenderne confidenza. Ma ne vale la pena. Anzitutto, come più su citato, il piacere di ascoltare un suono esente da difetti, che consente di percepire ogni passaggio, ogni più piccolo anfratto nascosto nelle varie song. Poi il mood. Anche in questo caso si è accennato alla tendenza alla commozione. Una caratteristica assolutamente di primo piano per delineare i contorni delle idee che fondano l’LP.
Percependo a occhi chiusi sia ‘Stjärnfall’, sia ‘Ro’, per (ri)citare due esempi notevoli, l’anima si stacca dal corpo per volare nel cielo prima e nel cosmo poi. In questo volo immaginario, copiose lacrime di dolore scivolano sulle guance per poi svanire nel nulla. Dolore intenso, di difficile individuazione, di complessa definizione. Forse, si tratta del famigerato male di vivere che affligge gli animi più puri, più sensibili, più ricettivi. Più onesti, anche, nell’analizzare le infinite nefandezze di cui è capace l’essere umano e, quindi, di soffrirne intensamente.
Per tutto questo, “The Star” è un’opera che può essere assimilata con successo anche da chi sia alieno al metal estremo ma che abbia una intrinseca tendenza alla tristezza e alla malinconia. Fattispecie emotive in cui i Wormwood si mostrano in tutto il loro talento.
Daniele “dani66” D’Adamo